Shimi Carmelli, novantuno anni, bel portamento eretto enfatizzato dall’abbigliamento da dandy, è lo scapolo londinese più ambito dalle ricche vedove ebree di Finchley Road, perché, unico tra i suoi coetanei, è ancora in grado di abbottonarsi da solo. Eppure, come una sorta di borgesiano Funes (il memorioso rivisitato da Woody Allen) vive un’esistenza grama e solitaria, oppresso dal suo eccesso di memoria. Beryl Dusinbery ha qualche anno più di Shimi e ama sottolineare il proprio potere di seduzione con trucco e abiti eccentrici. Passa le giornate a tiranneggiare le sue badanti – una ugandese e una moldava – e compone una sorta di dizionario enciclopedico dei propri mariti e amanti, elencati in perfetto ordine alfabetico.
Versione aggiornata della sibilla Cumana, «che chiese la vita eterna ma tralasciò di accennare che voleva anche l’eterna giovinezza», Beryl deve lottare con la memoria che si affievolisce: i nomi e le parole le mancano, di giorno in giorno sempre di più.
Un’età da scoprire
Howard Jacobson segue i destini paralleli di questi due personaggi fino a tre quarti del suo ultimo romanzo, Su con la vita (traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, La Nave di Teseo, pp. 411, e 17,00), da quando si incontrano in un cimitero e cominciano la loro strana amicizia a quando approdano a un fidanzamento che si direbbe fuori tempo massimo. Tuttavia, ridurre l’arguta e intelligente narrazione di Jacobson a una storia d’amore tra anziani, ancorché originale e brillante (come hanno fatto diversi recensori inglesi) sarebbe fuorviante, perché Su con la vita è, prima di tutto, una riflessione ironica e malinconica sulla vecchiaia e al tempo stesso sulla difficoltà di trovare un equilibrio tra la vita passata (non importa se tumultuosa come quella di Beryl, o segnata da un unico episodio vergognoso, come quella di Shimi) e le scarse possibilità offerte dal futuro a chi ha già perso il conto delle proprie primavere.
I protagonisti di Jacobson – e la pletora di coetanei (e soprattutto coetanee) che li circondano – non agiscono come macchiette e neppure come patetici individui arrivati in fondo al viale del tramonto: con profonda empatia e senso dell’umorismo ebraico, Jacobson li coglie nel momento dell’ultima transizione, non già verso la fine, ma verso un futuro possibile, una «quarta età» ancora tutta da scoprire. All’inconfessabile idea del medico che «vorrebbe avere la libertà di cui gode un veterinario e poter praticare a tutti loro un’iniezione letale», Beryl e compagne oppongono la loro caparbia volontà di non accontentarsi di vivere, ma pretendere di desiderare e di sedurre: la vedova Wolfsheim, ultraottuagenaria , ha «la voce sicura di una persona a cui non manca nulla, con un’attraente punta di raucedine dovuta alla chemioterapia» e gambe talmente belle da essere stata ingaggiata per un video sull’arte di scendere dall’automobile; la vedova Ostrapova civetta priva di ritegno, «senza alcun timore di mostrare il collo da tartaruga, bello fra i monili d’oro»; Beryl Dusenbery ricama su cuscini scene del proprio passato, «per non perdere l’urgenza di vivere nel presente».
L’ultimo rischio
A queste donne forti che, secondo Beryl non moriranno «gridando, devastate dal fallimento, ostinandosi a tornare ancora una volta sul luogo di ogni opportunità sprecata, prima di poter accettare che la vita non ha mantenuto le sue promesse», fa da controcanto il misantropo Shimi che, a causa di un risibile episodio di cui è stato protagonista nella sua infanzia, è oppresso da un perenne senso di colpa, disgusto e vergogna per ogni funzione corporea (non l’ideale per chi è tormentato da seri problemi di prostata).
Frenologo e cartomante, per uno dei tanti paradossi umoristici del romanzo, Shimi «ha troppo spesso l’aria di qualcuno che sa come andrà a finire» e tuttavia – grazie alla quasi centenaria Beryl – si ritrova al tramonto della vita ad «arrischiare un finale diverso». «Non si dovrebbe mai supporre – scrive Jacobson – di conoscere la storia della propria vita finché non è finita».