«Sono interessato alle società comunitarie di tutto il mondo, ma il mio lavoro si è concentrato principalmente sul Canada. Potrei ovviamente trovare storie anche in altri paesi, da documentare con rispetto, ma per il momento mi interessa raccontare quelle – uniche – delle praterie canadesi e sono felice di avere il privilegio di poterne condividere alcune con il resto del mondo». Tim Smith presenta così il suo lungo progetto In The World But Not Of It (Nel mondo, ma non parte di esso), esposto fino al 23 ottobre nella cornice della tredicesima edizione del Festival della fotografia etica di Lodi, rassegna a cura di Alberto Prina, Laura Covelli e Aldo Mendichi.
Smith, per tredici anni, si è dedicato alle comunità hutterite del Manitoba, territorio canadese dove anche lui è nato. Si tratta di un gruppo di anabattisti pacifisti le cui radici risalgono alla riforma del XVI secolo e la cui cultura si preserva tramite uno spontaneo isolamento dalla società e un’economia basata sull’autosufficienza. Alle spalle, hanno una storia di persecuzioni, ma oggi vivono in colonie (circa 500 per 45mila abitanti) costituite da pochi individui che condividono i loro beni e sembrano prosperare, con un buon tasso di benessere (emotivo).
L’incontro del fotografo con gli hutteriti è arrivato per caso. «Stavo cercando immagini per il giornale per cui lavoro, The Brandon Sun, quando mi sono imbattuto in alcune donne che lavoravano nell’orto comune della Deerboine Colony – spiega Smith -. Non sapevo quasi nulla della cultura hutterita e stavo cercando una storia incentrata sulle praterie da poter trasformare in un progetto, quindi ho continuato a tornare nella colonia. Non mi sarei mai aspettato di trascorrere più di un decennio a fotografare gli hutteriti, ma creare fiducia e relazioni richiede tempo».

In quel lungo arco cronologico, è riuscito a cogliere anche dei cambiamenti significativi?
Il semplice ingrediente del tempo aggiungeva un’importante sedimentazione al mio lavoro. Ritornando nelle comunità per anni, ho potuto assistere a diversi cicli sociali: bambini che crescevano, giovani adulti che si sposavano dando vita a una propria famiglia, e ai sottili mutamenti che avvenivano nello stile di abbigliamento, nell’uso della tecnologia e nelle tradizioni. L’accettazione della mia presenza è passata attraverso i mesi trascorsi a conoscere gli individui e le varie colonie che fotografo, a costruire relazioni. Dovevo mantenere un’apertura anche dentro me stesso. Penso che sia importante assicurarsi una prossimità, chiunque avesse avuto dubbi sull’essere fotografato poteva parlarne con me.

Qual è l’aspetto più affascinante del loro modo di vivere, forse la vicinanza e il rispetto per la natura?
Sicuramente, i forti legami sociali creati dalla struttura comunitaria hutterita. Nella società tradizionale siamo tutti occupati e concentrati su noi stessi. Siamo sempre più isolati gli uni dagli altri. La pandemia ha dimostrato quanto possa essere dannosa la separazione e ci ha ricordato l’importanza del «fare rete». La chiave ora, mentre la vita sta rientrando nella normalità, sarebbe mantenere vivida quella lezione, evitando di ricadere nelle trappole della frenetica vita moderna. Mi affascina anche l’osmosi con la natura che si respira nelle colonie. I bambini giocano costantemente all’aperto, nuotano in laghi e fiumi, costruiscono fortezze, pattinano sul ghiaccio, ecc. Nei giorni tranquilli, che si trascorrono in campagna, riesco quasi sempre a trovare qualcosa di interessante in una colonia hutterita.

Lei è un «testimone visivo» anche delle sterminate praterie del suo paese. Può dirci qualcosa a riguardo?
Le praterie canadesi sono meravigliose, aspre e magiche, pur se in superficie sembrano monotone. I nostri inverni sono lunghi e assai freddi. Ma quando si interrompe quella stagione, ci sentiamo obbligati a sfruttare al meglio le nostre estati calde, prima che inizi a cadere di nuovo la neve e un altro brusco inverno torni. Chi ama le praterie condivide un segreto che altri si perdono, non sanno cogliere. Le praterie sono spesso descritte come paesaggi noiosi. Tutto è pianeggiante. Non ci sono suggestive montagne né oceani a interrompere lo sguardo. Solo miglia e miglia di campi ondulati e terreni agricoli. L’essenza delle praterie non sempre si rivela facilmente allo spettatore, bisogna scovarla. Io ho questo privilegio, ne vedo la bellezza e posso documentarne i diversi momenti, anche attraverso le comunità che costellano il sud-ovest del Manitoba.

Pensa che la vita urbana, la quotidianità delle città non sia un soggetto con lo stesso fascino per la sua fotografia?
Sì, per adesso la vita urbana non attira la mia attenzione, pure se sono cresciuto in una grande città. Inoltre, le metropoli pullulano di fotografi, molto più talentuosi di me, che sanno narrarle al meglio. Preferisco restare un po’ isolato e raccontare invece capitoli di un Canada unico e sottorappresentato. Mi piace, quando mi appassiono a qualcosa, essere l’unico reporter nei paraggi.

Nei suoi progetti c’è una critica al nostro modo di vivere in eterna corsa e controllato dalla tecnologia?
Suppongo che ci sia un sottotesto critico. Ma anche molta autocritica, forse perché mi mette in guardia su quanto tempo perdo connesso alle nuove tecnologie o soffocato dallo stress che mi autoimpongo; sempre al lavoro, sempre concentrato sul futuro invece di impegnarsi ad assaporare il momento che si vive. Credo che sia difficile esercitarsi a essere «presenti» nei nostri attuali sistemi sociali e dobbiamo compiere grandi sforzi per evitare distrazioni. Fallisco spesso in questo compito, ma il mio lavoro, in particolare quello con le comunità hutterite, mi ricorda di abbracciare il presente.
E quando fotografo, mi immagino dentro le cose. Nonostante la barriera della camera, mi sento immerso nei bei momenti a cui la professione mi dà accesso. Penso che la mia fotografia riguardi proprio la capacità di trattenere quei bei momenti solo un po’ più a lungo. E poi di andare all’inseguimento dei prossimi.