Sotto la sferza del Covid, in Europa stanno cambiando molte cose. E cadendo alcuni tabù. Prima quello sulla formazione di un debito europeo, adesso anche quello sugli obiettivi di inflazione.

Dopo la Fed, pure Francoforte è pronta ad accantonare la regola aurea dell’inflazione «vicina ma al di sotto del 2%», aprendo a scenari impensabili fino a qualche mese fa.

Non dimentichiamo che la precedente crisi è stata affrontata, sbagliando, nella maniera opposta, con politiche deflazionistiche che hanno provocato molta sofferenza sociale, oltre che un rilassamento dell’economia.

C’è un abisso tra la torsione rigorista imposta ai bilanci statali in piena crisi nel 2012, con la Bce che ha giocato un ruolo «politico» non secondario, e le attuali parole della Lagarde, secondo la quale la politica monetaria e quella fiscale «devono rimanere espansive per tutto il tempo necessario».

Un cambio di passo che, a ben vedere, va a scalfire alcuni pilastri del patto di bilancio europeo. I target relativi all’inflazione, infatti, non sono importanti soltanto per la prospettiva macroeconomica (domanda, pil, occupazione, ecc.), ma anche per la disciplina dei conti pubblici.
Com’è noto, i risultati delle politiche di contenimento o di stabilizzazione della finanza pubblica dei paesi dell’Unione europea vengono valutati in termini «strutturali».

Significa che il peso dell’indebitamento di un paese viene misurato tenendo conto della differenza tra come gira realmente l’economia e come potrebbe girare a pieno ritmo, senza generare «spinte inflazionistiche». Attraverso una funzione matematica basata su fattori come la produttività del lavoro, gli investimenti, la media delle ore lavorate, si calcola innanzitutto il cosiddetto «differenziale tra Pil effettivo e Pil potenziale» (output gap).

Se la differenza è positiva, nel senso che la crescita reale è superiore a quella potenziale, si dice che il ciclo è favorevole e che i prezzi potrebbero surriscaldarsi. Viceversa, nel caso di gap negativo, l’economia necessiterebbe di una spinta da parte del settore pubblico. Nel primo caso, pertanto, le politiche anticicliche dovrebbero essere più restrittive, nel secondo più espansive. Si capisce, quindi, che è sempre l’inflazione a guidare la partita.

Un modello, questo, che può creare dei paradossi molto curiosi. Com’è accaduto per il nostro Paese l’anno scorso, quando la Commissione ha stimato un output gap dello 0,1%. In pratica, nonostante la crescita del nostro Paese fosse prossima allo zero e si intravedessero già i segnali della deflazione, Bruxelles sentenziava che stavamo crescendo al di sopra delle nostre possibilità e che, di conseguenza, dovevamo restringere i cordoni della borsa.

Da quando gli economisti si trastullano con la matematica per dare una veste scientifica alle loro teorie, i guai per le persone e la stessa economia si sono moltiplicati. Ma la domanda che dobbiamo porci adesso è la seguente: quali implicazioni può avere nel medio periodo la decisione della Bce di non impiccare l’economia ad una certa soglia d’inflazione, dalla quale, peraltro, le stesse regole deflazionistiche contenute nei Trattati ci hanno tenuto lontano in tutti questi anni?

E poi: visto il cambiamento di prospettiva della banca centrale, non sarebbe venuto il momento di uscire dalla provvisorietà anche per quanto riguarda la sospensione del fiscal compact, riscrivendo daccapo le regole che dovrebbero sovrintendere alla politica di bilancio dei paesi membri?

Qui, obiettivamente, le cose si complicano. In questa fase, l’Europa sembra navigare a vista, stretta tra l’esigenza di reagire con strumenti ed approcci nuovi all’emergenza in atto e l’ancoraggio a modelli e regole che sono alla base della sua attuale architettura istituzionale e finanziaria.

Ne sono prova, ad esempio, l’incardinazione del Recovery fund nel «Semestre europeo», il ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio pensato per garantire il rispetto del patto di stabilità, e gli impegni che i paesi membri, Italia in primis, stanno assumendo nei loro documenti programmatici a proposito di «rientro dal debito», mediante una dilatazione dei surplus primari (meno spesa pubblica in rapporto alle tasse che pagano i cittadini) nei prossimi anni.

Si avverte una discrasia tra il nuovo corso di Francoforte e certe resistenze di Bruxelles. Un nodo che andrà sciolto, prima o poi.