Lascia di nuovo il segno l’incontro celebrato giovedì scorso fra il pubblico palermitano – folto di appassionati wagneriani – e il Crepuscolo degli Dei, giornata conclusiva dell’Anello del Nibelungo. Buona parte del merito va ascritto allo spettacolo del regista Graham Vick, capace di centrare i complessi nodi drammaturgici che animano la colossale architettura teatrale wagneriana. Diluito per ragioni contingenti in due blocchi fra il 2013 (Oro del Reno e Valkiria) e l’inizio del 2016 (Sigfrido è andato in scena lo scorso dicembre), il progetto registico di Vick ha mantenuto una forte coesione, tesa a rielaborare e desacralizzare la componente mitica in chiave fortemente contemporanea.

Dei, semidei e esseri umani vivono le medesime sofferenze e passioni violente, ineluttabile bagaglio tragico che nel terzo e conclusivo atto del Crepuscolo è simboleggiato dalla catasta di oggetti utilizzati come pira di Sigfrido e Brunilde, detriti dell’intero percorso dell’Anello: la roulotte di Wotan in Valkiria, i sacchi di immondizia e il drago automobilina del Sigfrido, i girasoli dell’Oro del Reno, tutti pronti per ardere. Prima di giungere alla catarsi finale, il racconto dell’opera aveva però spesso invaso la platea, con i corpi di decine di giovani mimi e coristi impegnati a dar vita a personaggi e luoghi simbolici del libretto: le acque del Reno innanzitutto, ma anche i corvi di Wotan, invitati alle nozze, soldati, cani dei cacciatori, cavalli delle valchirie (ottimo il lavoro sui movimenti di Ron Howell).

Il palcoscenico spoglio muta velocemente da rupe erbosa di Brunilde in reggia di Ghibich, piattaforma bianca con boiserie e lampadari, poi contornata da rete protettiva per l’acclamazione nuziale dei guerrieri-hooligans, fra scene sacrificali di infanti e immagini private di dipendenza dalla droga (una doppia ‘pera’ sugella il giuramento di sangue fra Sigfried e Gunther) di Gunter e Gutrune. Hagen in tenuta da skinhead (a scelta usa mazza da baseball e lancia), si aggira minaccioso fra palco e platea, registra occulto del tradimento.
Nel finale, la folla-fiume raccoglie l’anello per gettarlo infine, in una fiammata di luce d’oro, nella sala: prima del buio della fine gli abiti aperti mostrano decine di cinture esplosive, i led dei timer rossi come braci.

Colpo di teatro scioccante, dalle numerose letture, ma piuttosto pleonastico. Stefan Anton Reck propone dal podio una narrazione fluida e organica, che stavolta – a differenza del recente Sigfrido – trova l’orchestra partecipe, il suono omogeneo e denso, ridotti al minimo gli incidenti di percorso.

Irene Theorìn, Brunilde dalla maschera allucinata su un corpo ormai privo di corazza e dovizie, è torrenziale e umanissima, con pochi segni di fatica. Mats Almgren è un Hagen torvo e violento, capace di dolcezza solo con Alberich – sempre magnifico Sergei Leiferkus – accompagnato in sedia a rotelle nella passeggiata-sogno. Con meno problemi rispetto alla precedente giornata, Christian Voigt resta un Sigfrido pallido e affaticato.

Ben a fuoco Gunther (l’aitante Eric Greene)e Gutrune (Elizabet Blamke-Biggs), di notevole presenza scenica come pure le figlie del Reno, che fungono in parte anche da ottime Norne «ministeriali» e tabagiste. Intensa e commovente la Waltraute di Viktoria Vizin. Alla fine lunghi applausi trionfali per tutti, con pubblico festante. Ultima recita il 4 febbraio.