Pubblichiamo un estratto dal libro di Romano Prodi «Strana vita, la mia» (da oggi in libreria) scritto con Marco Ascione, edito da Solferino. Il volume sarà presentato il 21 settembre alle 18 a Roma alla Feltrinelli di Galleria Alberto Sordi con Enrico Letta.

Al bivio del Quirinale si affiancano per l’ultima volta le strade di Romano Prodi e Massimo D’Alema. L’uomo della sinistra-centro anziché del centrosinistra, c’è sempre stato a ogni curva del Professore. Spesso da antagonista, a viso aperto.

«Il primo vero dissidio lo avemmo nel 1994. Io ero fermamente convinto che si dovesse andare subito a votare e invece le elezioni furono rimandate di oltre un anno». Ma è a Gargonza che appare tutto più chiaro.

Nel 1997 in quel castello dei conti Guicciardini Corsi Salviati, che pure aveva già vissuto le battaglie tra guelfi e ghibellini (da esule passò da lì anche Dante), D’Alema si abbatte come un tornado sul weekend dell’Ulivo. Parte così: «Scusatemi se sarò spigoloso». Poi scolpisce: «La politica fuori dai partiti non esiste. 

Non è un partito, è un cartello elettorale. Noi non siamo la società civile contro i partiti, noi siamo i partiti. L’idea che si possa eliminare la politica come ramo specialistico per restituirla tout court ai cittadini è un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie o Berlusconi, e il “comitato” è un sottoprodotto rispetto a queste due tragedie. I comitati, questi raggruppamenti della cosiddetta società civile, non servono a governare, ma solo a fare una politica tardo sessantottesca».

Quindi, tra le mosse un po’ «sospette», quantomeno per la tempistica, c’è il viaggio a Bonn: l’allora segretario del Pds e presidente della Bicamerale va a parlare con il cancelliere tedesco Helmut Kohl appena prima della missione di Prodi dal medesimo Kohl per perorare la causa dell’ingresso dell’Italia nell’euro.

«Curiosa coincidenza, sarà andato a parlare bene di me. Ma il mio rapporto con il cancelliere tedesco era molto più stretto e personale di quanto non si pensasse. È perfino venuto a Roma per appoggiarmi alle elezioni, nonostante la diversa militanza politica».

Un anno dopo, una nuova curva. D’Alema accetta l’abbraccio con l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga a sostegno del governo, dopo il rifiuto di Prodi, che preferisce cadere in Aula. È la fine del primo esecutivo del Professore e l’ingresso di un post-comunista a Palazzo Chigi.

«Posso dire che il rapporto con D’Alema non è stato per nulla facile, ma ha avuto anche molti momenti di collaborazione anche se non abbiamo mai avuto una vera e propria confidenza. È inutile infatti metterla sul piano personale, si è trattato di una profonda e legittima diversità politica. Capivi, parlando con lui, che rappresentava una sola forza, quella degli eredi del Pci. A Gargonza suscitò sgomento, fu l’inizio del disastro. Nella mia testa l’Ulivo era una forza autonoma, mentre il messaggio di D’Alema era chiaro: ti abbiamo dato una delega. D’altra parte non possiamo farne una colpa solo a lui. Il suo era lo stesso senso identitario che animava le mosse di Franco Marini. È quindi corretto ricordarli insieme».

Vale perciò la pena di rammentare che fu lo stesso ex segretario del Ppi a rivendicare le sue mosse anti Prodi, in una conversazione con Francesco Verderami sul «Corriere della Sera», il 29 maggio 2001: «Sì, io e D’Alema complottammo contro Prodi, solo che io non mi sono mai pentito, Massimo sì. Ha provato perfino a riappacificarsi con Romano. Chissà, forse sperava di salvare Palazzo Chigi. Che volete farci, uno il coraggio o ce l’ha o non ce l’ha». Una ricostruzione in cui D’Alema non si è riconosciuto.