«Cambiare si può… si deve!». È questo il messaggio lanciato ieri a Roma in un seminario organizzato dal Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) in collaborazione con Federserd, Gruppo Abele, Antigone, Forum Droghe, Società della Ragione, Itaca, Social Pride, per chiedere una nuova politica sulle droghe.

Un incontro – aperto ricordando don Andrea Gallo, che di coraggio, anche in materia di droghe, ne ha avuto tanto – sviluppato da una constatazione evidente: la legge Fini-Giovanardi ha fallito. Una normativa criminogena che ha portato in carcere il 37% dei 65 mila detenuti e ha contribuito all’invio di più di un milione di persone in prefettura. Nata da un’ossessione securitaria e repressiva, non ha raggiunto nemmeno l’obiettivo dichiarato: i consumi di droghe non diminuiscono affatto.

Specie in un momento in cui la forte precarietà sociale, la mancanza di lavoro, le incertezze per il futuro hanno portato a un aumento consistente di consumi che generano dipendenza: l’alcol come il gioco d’azzardo. Con altri abbiamo lanciato la campagna per le «tre leggi per la giustizia e i diritti» anche per sopprimere le norme più odiose di questa legge.

Ci è parsa perciò assurda l’ipotesi di assegnare la delega sulle droghe al ministero degli Interni: qualcuno vuole continuare ad affrontare il tema con la polizia e il carcere. Serve invece un cambiamento deciso, che la faccia finita con oltre dieci anni di politiche totalmente sbagliate. E serve un Dipartimento nazionale antidroga che non si limiti a emanare linee guida, e a spendere i non pochi soldi che gli sono stati messi a disposizione, spesso con criteri discutibili, senza un reale confronto con le Regioni e con il terzo settore. La Consulta nazionale che dovrebbe permettere questo dialogo non viene convocata da anni.

Ogni Regione ha organizzato il suo sistema di intervento in modo del tutto autonomo e così l’accesso ai servizi e la tutela della salute variano da territorio a territorio: una disuguaglianza che colpisce i cittadini. Bisogna ricreare una cornice nazionale. E in questa nuova architettura il terzo settore non può essere il soggetto su cui semplicemente si scaricano i problemi. Oggi il privato sociale gestisce il 90% dei servizi di prossimità, di quelli nei contesti del divertimento giovanile e di quelli residenziali di cura, e almeno l’80% dei servizi di reinserimento e supporto socio lavorativo. Bastano questi dati per capire che non è un attore residuale.

Governo e parlamento non possono continuare a fare lo struzzo con domande sociali così rilevanti. Chiediamo perciò alla politica di definire finalmente una politica sulle droghe non ideologica, non punitiva, basata sui reali bisogni delle persone coinvolte, fondata sulle evidenze scientifiche e supportata da un investimento economico adeguato.

*vicepresidente del Cnca