Era il 1947, chissà se un giorno di tarda primavera o già di autunno, quando Cecil Beaton si presentò con la sua Rolleiflex e il suo altrettanto celebre snobismo, da ormai maturo ma comunque scicchissimo Bright Young Thing, alla porta di un appartamento in Cornwall Gardens, una strada tranquilla a due passi dalla trafficata Cromwell Road. Quell’anno aveva ritratto Vivien Leigh, elegante in un abito con cintura ricamata, tra i drappeggi e gli stucchi dell’Ambasciata Britannica a Parigi: seduta sul bracciolo di una sedia impero, i gomiti appoggiati allo schienale, la mano sinistra allargata a sorreggere con studiata noncuranza la destra stretta a pugno. Un’altra sedia, questa volta imbottita di velluto, compare nelle foto scattate l’anno precedente a Greta Garbo in una stanza dell’Hotel Plaza di New York; lei si abbandona all’indietro contro lo schienale, sportiva in tailleur chiaro e dolcevita preme sulla seduta le francesine di camoscio per sostenere le gambe ripiegate tra le braccia, lascia dondolare in una mano la sigaretta accesa. Il servizio commissionato a Beaton da «Vogue» in Cornwall Gardens non ha per soggetto una più o meno giovane diva di assoluta celebrità, piuttosto una scrittrice sessantenne dalla vita irrilevante e poco esposta. Il set, per quanto ubicato a South Kensington, è un appartamento comune e disadorno: quello che Ivy Compton Burnett divide dal 1934 con Margaret Jourdain. Sarà tuttavia ancora una sedia a risucchiare lo sguardo nello scatto.
«Credo che fosse interessato più all’arredamento» racconterà qualche giorno dopo Compton Burnett alla sua dattilografa. «Mi ha chiesto di sedermi su quella sedia. Gli ho risposto che era rotta e che avrebbe potuto cedere. Lui ha detto: “Sì, ma lei ci siederà sopra per me, vero?”». Il risultato è l’immagine che ha consegnato Ivy Compton Burnett alla leggenda: la sedia pericolante è una Hepplewhite con schienale ricurvo, la scrittrice appare immobile quasi fosse eretta sopra un trono, non appoggia le mani sui braccioli, ma le tiene raccolte in grembo, consapevoli. È vestita di nero, a chiudere la giacca sulla camicetta chiara una spilla forse di brillanti; il solito cerchio a nastro le ferma i capelli come fossero una cuffia. Ai lati della Hepplewhite si stagliano contro la parete bianca due parafuochi vittoriani, hanno forma di scudo e sono issati su due aste di metallo. In alto, al centro ma già fuori fuoco, uno specchio ovale inquadrato per metà. Lei guarda diritto proprio dentro l’obiettivo. Austera e ipnotica, ieratica per quanto semplicissima, la composizione è una fuga rigorosa di rette parallele, un teorema di geometrie scolpite che le poche forme arrotondate rendono più enfatico. Ecco servita ai lettori la scrittrice algida e severa, una sfinge dall’aspetto sinistro che somiglia i magnetici enigmi dei suoi libri. Anche i despoti dotati di massima perfidia cui affida il ruolo di protagonisti.
Aveva innescato l’interesse di «Vogue» la salva entusiasta di recensioni e il botto strepitoso di vendite con cui era stata accolta in quel 1947 la pubblicazione da Gollancz dell’undicesimo romanzo di Compton Burnett: la sua fama arriverà con singolare fretta oltreoceano, tanto che il libro sarà il suo primo a ottenere anche un’edizione americana, uscita con unanime consenso da Knopf l’anno successivo. Di quel romanzo, tradotto in italiano da Floriana Bossi per Einaudi nel 1972 e ora riproposto da Fazi con lo stesso titolo Servo e serva («Le strade», pp. 353, € 19,00) in una nuova versione di Manuela Francescon, l’autrice avrebbe detto negli anni sessanta che restava per lei il più amato e quello che più si era divertita a scrivere. Senza dubbio la vitalità delle sue ossessioni narrative, il nitore dei suoi strumenti stilistici raggiunge in Servo e serva temperature incandescenti. Quella sua originalissima forma in prosa da lei stessa definita «romanzo drammatico», o «qualcosa tra il romanzo e il teatro», congeniale al suo talento poiché le consentiva di liberarsi tanto dalle pastoie descrittive del romanzo, quanto dai vincoli imposti all’immaginazione dal teatro, qui dispiega una perfezione forse mai eguagliata in tutta la sua opera. Benché la voce dell’autore sia come sempre abrasa dalla pagina, brilla qui la luce di una segreta autoironia, arde sotto la cenere la fiamma di una molto lucida dichiarazione di poetica. Il tema chiastico del freddo e del caldo, raffigurato in incipit e in explicit da un camino che fa fumo, penetra ogni pagina del libro: ne diventa tra secchi di carbone aggiunti o risparmiati una sorta di continua myse en abime. Né stupisce che in questo romanzo, malgrado la taccola malaugurante da cui il camino è ostruito, Ivy Compton Burnett non uccida nemmeno un personaggio.
«Riguardo alla trama trovo che la vita reale non sia di nessun aiuto. La vita reale non sembra possedere una trama. E quando penso a una trama appetibile provo questo doppio rancore nei confronti della vita. Ma ritengo che ci siano i segni che queste strane cose accadono, sebbene non affiorino. Credo che il male potrebbe mettere in pericolo molti di noi, se dovessimo affrontare una forte tentazione, e sospetto che alcuni di noi lo siano», aveva dichiarato la scrittrice in un’intervista apparsa su «Orion» nel 1945. Il male, sia tradimento o menzogna, delazione, manipolazione o pulsione omicida, dilaga ovunque nelle pagine di Servo e serva. Ma nessun male, all’interno di questo romanzo edificato come un’architettura verbale su tre piani, dalla nursery dei bambini alla dining room degli adulti al basement dei domestici, è più orribile nella sua perversità di quello che Horace, il tirannico capofamiglia, infligge ai suoi cinque figli. Il mondo di questi figli – cenciosamente abbigliati come i protagonisti di Oliver Twist e accaniti lettori dei Racconti da Shakespeare scritti da Charles Lamb con quella sua sorella Mary che pugnalò a morte la madre – è nella prosa in apparenza così vitrea e gelata di Compton Burnett un mondo molto poroso e molto caldo. Malgrado parlino come mai potrebbe esprimersi un bambino, questi figli possiedono anche muscoli e nervi, un corpo capace di provare dolore o pretendere un abbraccio. Non accade spesso nei suoi libri. «Io non credo che i bambini siano meno interessanti degli adulti. Credo che la loro esperienza tenda a essere più profonda e più acuta, e per quanto più effimera – che lasci un ricordo e un’impressione più profondi» ha dichiarato ancora Compton Burnett. La memoria della sua infanzia devastata tocca in Servo e serva un grado insostenibile di ebollizione.
Al precettore dei bambini la casa dove vive la famiglia appare «grande, luminosa e fredda». Da un altro piano dell’edificio, ma sullo stesso livello narrativo, gli fa eco il maggiordomo, insieme «capofamiglia» dei domestici e deuteragonista del romanzo: «Il focolare non è mai stato il punto forte di questa casa». Domestici e bambini, comunque servi tiranneggiati dal padrone che può eternamente disporre del loro destino, non sono mai innocenti, tuttavia li scalda un sentimento che diventa generosa verità. Avviene del resto oltre la soglia del piano nobile l’unico mutamento concesso alla vicenda, che è nella trama anche il solo gesto di libertà e altruismo. «Ciò che balza fuori dai suoi libri è un ardente, spietato senso di giustizia. Nel suo particolare, eccentrico modo, la Compton-Burnett è un pensatore radicale, uno dei rari eretici moderni. È l’eccentricità che ha distolto l’attenzione dal fatto che questi piccoli volumi uniformi sono pacchetti sovversivi» scriveva Mary Mc Carthy nel 1966. Tradita nella foto di Beaton da quelle sue mani inermi e dai suoi occhi accusatori, Ivy se ne sta seduta sui suoi romanzi come fossero candelotti di tritolo. Nient’altro che le esplosioni della vita ha nascosto dietro gli scenari di cartone, confuso nei dialoghi nebbiosi, camuffato tra i corpi rarefatti. Della vita è la cieca mancanza di equità che le interessa raccontare. Gli incubi con cui la vita domina la nostra mente e che deflagrano in fondo al nostro cuore.