Sabato. Esterno giorno. Camminata tra i vicoli verso un’edicola, verso una piazza, in chiacchiera con nonno e amichetto e madre dell’amichetto. La gente è in giro. C’è il sole, è una grande giornata, come si fa a stare a casa? Chi in tuta (ormai calzoncini di spugna sportivi), chi in bici, chi in monopattino, chi a piedi con presunte buste della spesa, chi con guinzaglio e cane annesso, chi a spingere il doppio passeggino: vitamina D ai pargoletti. Tutti fuori. Tutti all’aria, dopo la tortura della claustrofobia obbligata. Tutti a godere delle piccole cose. Anche noi facciamo parte dei tutti. Per la prima volta usciamo in tre, la famiglia intera. Mio figlio è felice di rivedere il nonno dopo più di un mese, il compagno di classe dal 3 marzo. Siamo bardati per bene, la mascherina non ce la toglie nessuno, i guanti qualcuno si e qualcuno no ma dai, siamo all’aperto, non tocchiamo nulla di virulento. Ci si sorride coi passanti, solidali in questa breve oasi di pace come se nulla fosse.

CI SI CONFRONTA, ci si racconta i momenti peggiori, le difficoltà di convivenza, la didattica a distanza, il distanziamento sociale, le mancanze che paghiamo di più in termini emotivi. Poi si fa l’ora di pranzo, tocca tornare tra le quattro mura, vabbè, però rifacciamolo. 4.038 passi.
Domenica. Esterno giorno. Ore undici. La mamma sta da sola, dopo mesi, perché la ragazza ha chiesto di uscire e non era proprio possibile dirle di no. La strada da casa mia a casa sua corrisponde a un chilometro e duecento metri dice googlemaps. Nel primo tratto incontro qualcuno, sul ponte tre quattro persone mascherinate. Sul lungotevere nessuno.
Mia madre nega di essere preoccupata ma i fatti dimostrano il contrario perché, dopo poco che sono arrivata, sta male. Dopo un paio d’ore riesco ad andare via che si è tutto risolto con un appuntamento dal cardiologo il primo giorno della fase 2. Torno a casa piangendo. Che palle, sta quarantena che mi ha veramente tramortito le risorse. 3.538 passi.
Lunedì. Esterno giorno. Mezzogiorno. Fare la fila pure dal tabaccaio. Ahimè, ho dimenticato le cuffie. Lo dico al signore che aspetta prima di me, in una smania di condivisione da socialità azzerata. Vado al supermercato biologico dietro casa. Passo davanti alla piccola vetrina dell’antiquario amico con cui ci si fermava a ridere e scherzare ogni volta: gli scrivo un messaggio: «mi manchi». Subito risponde: «anche tu». La seconda fila che mi aspetta è assai dinoccolata lungo la strada. Una telefonata mi accompagna al mio turno. Entro, compro con mascherina e guanti, vado alla cassa in fretta perché mi sto sentendo strana, evanescente, sudo sulla fronte e intorno alla bocca ricoperta dal tessuto. Provo a chiamare mio marito ma non risponde. Chiamo mio figlio che mi risponde sottovoce: «mamma, sto facendo lezione» e mette giù. Finalmente al fisso becco il marito e gli chiedo di venirmi incontro. A cento metri dal negozio mi siedo su una panca di un ristorante chiuso. Bevo qualche sorso di thè freddo comprato apposta. Arriva il salvatore.
L’astenia è un verme che si è insinuato in me. Voglio uscire ma non lo sostengo. Bisognerà riabituarsi a camminare, a coordinare i movimenti di corpo e anima. Ho la voce roca, il fiato rotto, le ossa stanche. Mi paio anziana, mi sento anziana. 1.857 passi.
Martedì. Esterno giorno. Esco per non uccidere nessuno a casa. Cammino a caso, i nervi mi portano in giro, mi prendono in giro, faccio il giro del quartiere, faccio il giro della fontana come in un cortometraggio di mille anni fa in cui poi, alla fine, dentro la fontana ci caddi vestita nel mese di febbraio. È aprile e stiamo male tutti, alla sesta o settima settimana di reclusione. Come si fa a stare bene obbligati a non uscire, a non abbracciare, a non partire, a non amare. Come si fa.

LA GENTE IN GIRO cammina con la mascherina, come ci è stato detto: la mamma e la figlia, anziane ambedue, vanno per la strada tenendosi per mano; il figlio del pollarolo davanti al negozio battibecca con la moglie (senza mascherina); le signore in fila al bancomat parlottano come se si conoscessero. Potrei credere di stare vivendo un giorno normale, un giorno qualunque ma non è così. Siamo bardati come guerriglieri destinati al fallimento. Siamo patetici viaggiatori di un tempo distopico che è arrivato a bomba e ci ha schiaffeggiati con violenza.
Ci ritroviamo a camminare come zombie nelle vie della città il cui impero ha governato per secoli sul mondo intero. Siamo zombie perché ci consideriamo già estinti, oggi, domani, tra un mese se siamo fortunati. 2.118 passi.
Mercoledì. Esterno giorno. Si va da mamma e ci si procura prescrizioni mediche. Sono sempre meno propensa a uscire ora che, piano piano, nella fase 2, sarà più possibile. Mi affatico inutilmente. Mi mancano gli amici. Faccio la solita strada con le cuffie. Nel rettilineo del supermercato vedo venirmi incontro mia cugina: è una cugina di terzo o quarto grado, tipo che le nonne erano sorelle, la madre porta il cognome di mia nonna, io e lei ci siamo conosciute al liceo (com’è successo con altri tre cugini così lontani di parentela ma abitanti nella stessa città e tutti più o meno coetanei). Lei è bella, ha due belle figlie, un buon marito (intelligente e di successo), ha aperto un negozio di vestiti qui dietro, in una via parallela, qualche mese fa… È bionda, magra, alta, elegante. La chiamo per nome e lei si gira. Nella testa risuonano le notte psichedeliche di Shine on you crazy diamond dei Pink Floyd ed è bellissimo vedere – senz’audio – questa estranea che mi fa cenno di non essere colei che intendo: devo crederci, perché non dovrei. Al bancomat vedo uscire il papà del bambino a cui feci la baby sitter quando io avevo 18 anni e lui 8 (ora siamo amici) e, nel dubbio fresca dell’esperienza con la sosia della cugina, non lo saluto col rischio di sembrare maleducata. 4.102 passi.
Giovedì. Esterno giorno. Torno al supermercato (quello normale, non biologico). Fila relativa. Ormai detesto portare la mascherina, mi opprime, pensare che sarà il mio kit di socialità chissà fino a quando mi butterei nel fiume (che poi, un bagnetto mica male). Il supermercato sotto casa è davvero una fregatura: uno stretto cunicolo in cui hanno piazzato due grossi separé per dividere frutta da surgelati, pasta da casalinghi. Limoni, kiwi, burro per il marito che lo mette sul pane a colazione, spinaci: voglio fare la spanakopita greca, quei fagottini di pasta fillo con dentro spinaci e feta.

ALLA CASSA chiacchiero col commesso che non ho mai visto. Dice che non è nuovo ma che si alterna tra questa filiale e una nuova. Gli chiedo come faccia a sopportare la mascherina tutto il giorno. Confessa di detestarla e mi racconta che ha assistito a parecchi attacchi di panico dovuti alla sensazione di soffocamento che causa l’essere imbavagliati naso e bocca: sequestrati da una malattia che vola negli aliti delle persone. Mi sento così affine, empatica nei suoi confronti che mi sporgo oltre il bancone, gli tolgo la mascherina dopo aver, con gesto sensuale, spostato la mia sotto il mento, gli prendo il viso tra le mani guantate di lattice e lo bacio in bocca sotto gli occhi increduli dei restanti in fila. Tiè, beccati questo, coronavirus! Io bacio, io limono, io uso lingua saliva e labbra per trasferire sentimento a un’altra persona e me ne sbatto se nel frattempo l’ho contagiato: moriremo insieme, ma soddisfatti. Il ragazzo mi sveglia dalla mia fantasia ridandomi carta e scontrino. Lo fisso negli occhi e lo ringrazio. È stato bello lo stesso. 1.554 passi.