Aspetti esteriori del romanzo di Massimo Parizzi, Io, (Manni, pp. 206, euro 19,00), a principiare dal titolo così esposto, potrebbero farlo leggere come tardo epigono della grande sperimentazione primonovecentesca europea o collegarlo ai tecnicismi neoavanguardisti di metà Novecento. L’autore ha invece le proprie radici ben impiantate negli slanci cattolici della contestazione milanese, poi confluiti in Lotta continua.

È IN RISPOSTA alla successiva dispersione di vite prodotta dalla restaurazione neoliberista, che Parizzi fonda nel 1999 una rivista, «Qui. Appunti dal presente», la quale, scavalcando le ossificazioni, i nascondimenti di collocazione sociale, istituzionale, ideologica, si proponeva di recuperare la concretezza di un «qui» vitale capace di riattivare la spinta utopica. Era un modo di collocarsi nell’onda del «narcisismo di massa», com’è stato chiamato, tentando di curvarlo a una postura che oltrepassasse il dominio neoliberista. Il contesto va ricordato non solo per comprendere certi refrain ricorrenti in Io, come «la società è indietro rispetto all’uomo», ma per avvicinare il significato profondo del romanzo.

L’opera si dispiega su tre piani, distinti anche graficamente. Il corpo centrale è costituito dalla narrazione in terza persona di frammenti di un «lui»; accanto ad esso frequenti fuori-campo in corsivo, in prima persona, che la nota d’autore dice «tratti per la maggior parte da miei diari e scritti, in molti casi pubblicati in Qui»; sopra di essi insistono brevissimi inserti di una riga, talvolta allineati a destra, sovente ripetuti a distanza, in funzione esplicitamente metanarrativa. La pagina si presenta dunque sempre composita, distinta in brevi sequenze. Lo stesso sviluppo narrativo solo approssimativamente si snoda lungo la biografia di «lui», tanto vistosamente è affollato da familiari, amici, passanti, personaggi puramente ipotetici, come nell’abnorme elenco di un periodo protratto per ben otto pagine. Eppure, di nuovo, il titolo Io non è provocatorio, così come il frastagliamento narrativo non è puro gusto sperimentalista o volontà di épater le bourgeois.

LA STESSA SOSTITUZIONE dell’andamento orizzontale del tempo narrato con quello verticale – i progressi anagrafici di «lui» sono continuamente interrotti da un rifarsi da capo all’infanzia – non risponde a logiche di tipo psicoanalitico, né i frequenti ripensamenti interpretativi della voce narrante adombrano qualche intromissione pulsionale, senza increspature è il registro linguistico. Tutto è e avviene alla luce del sole, tutto, ivi compresa l’esplicita segnalazione al lettore dei salti narrativi, è condotto da una piana volontà argomentativa e razionale, in risposta al bisogno profondo di adesione diretta e autentica al «qui» della vita di ogni individuo. Per questo sulla pagina si convocano i documenti di realtà dei corsivi, si ricorre al distanziamento oggettivante della terza persona, ci si affida al continuo raccordo dei brevi inserti metanarrativi, così frequentemente interrogativi, non di rado didascalici, talvolta a refrain anticipanti o disseminati sull’intero corpo narrativo – «Qual è la verità?»; «Chi parla?»; «Perché?»; «Che cosa c’è, in alto?»; eccetera.

Ma le risposte non giungono o non sono univoche, così come il tentativo ogni volta rinnovato di principiare dall’infanzia non riesce mai a raggiungere un maturo punto di vista unificante. Il mitico sguardo dall’alto sempre invocato non diventa mai reale: «Che cosa c’è, in alto? In alto ci sono le nuvole, che corrono nel cielo. C’è il cielo senza nuvole, azzurro. C’è il cielo senza stelle. E poi? E poi c’è il cielo e ancora cielo». Così come il verso dove, da cui si attende un orizzonte di senso, attraversa il romanzo senza risposta fino all’ultima pagina: «che cosa ci sarà, dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto?».

L’IO DEGL’INNUMERI personaggi-comparse, le cui brevi vicende sono assommate per associazioni analogiche alla lieve trama di «lui», si rivela poco più che una maschera. Il vero protagonista non sono né loro, né «lui», di cui, come si diceva, non si ha vera evoluzione, ma è la voce narrante dell’autore. Tutto il romanzo è esattamente la sua messa in scena, che indica, si domanda e risponde, interpella il lettore, interroga il personaggio, gli cede la prima persona con incrollabile costanza, con energia sempre rinnovata.

La verità del romanzo di Parizzi è nello sforzo strenuo di mettere alla prova il programma del 1999: cercare nel «qui» vitale di ciascuno il comune Io. Il suo valore è nel mostrarne l’impossibilità. Che la rappresentazione di questa sorta di tentativo alla Münchhausen, di tirarsi fuori dalla palude tirandosi per i capelli, avvenga nel mezzo della sconvolgente crisi pandemica e ambientale, vera messa a nudo della feroce debolezza del dominio neoliberista che il narcisismo di massa ha coltivato, è ulteriore prova del valore e dell’onestà dell’opera di Parizzi.