Già nei primi tre quadri dipinti che non aveva ancora compiuto dieci anni è racchiusa tutta la poetica e l’estensione nei vari ambiti artistici in cui avrebbe lavorato Gino Pellegrini, scenografo e artista, vissuto tra gli Usa e l’Italia. Nato nel 1941 a Lugo di Vicenza, era migrato nel 1957 verso la California, dove aveva studiato alla facoltà di architettura dell’UCLA e a seguire il Master in Fine Arts presso la Art Center School di Los Angeles.

Fu per pagarsi gli studi che iniziò a lavorare come cartellonista pubblicitario per la Pacific Outdoors Advertising e per importanti studi di architetti per cui realizzava modellini, plastici e ciò che oggi viene chiama rendering. Inoltre realizzò ambientazioni per il Museo di Storia Naturale di San Francisco, per il Griffith Observatory e per il primo Disneyland in California.

Negli studios
Aveva conosciuto il grande Walt in occasione di Mary Poppins di Robert Stevenson, per cui aveva creato fondali nel 1964, in quanto allora molto cinema era stato girato dentro gli studios dovendo elaborare grandi dipinti alquanto realistici in cui spesso venivano mixati bidimensionalità con grande profondità di campo immaginaria ed elementi scenici tridimensionali onde creare gli sfondi paesaggistici delle scene dei singoli film. Quindi Gino era riuscito a collaborare con alcuni studios hollywoodiani creando fondali per grandi registi e i loro «mitici» film: come ad esempio Stanley Kubrick e il suo 2001 – Odissea nello spazio nel 1968, Alfred Hitchcock e il suo geniale Gli uccelli nel 1963, Robert Wise e Jerome Robbins per il loro West Side Story girato nel 1961 sulla base del famoso musical che avrebbe vinto ben dieci Oscar, tra cui miglior film e miglior scenografia, che fu di un certo Oliver Smith.

Lavorare con maestri di questo calibro, anche molto meticolosi ed esigenti nel loro fare cinema, per il giovane Gino non era mai stato un problema avendo lui incamerato nel profondo dell’anima un’esperienza determinante per il suo futuro di scenografo vissuta da piccolo sul set di Senso di Luchino Visconti, avendovi lavorato il padre. Questi aveva creato una bellissima porta in uno dei fondali di una stanza, un dettaglio nemmeno notato dal regista o dal cameraman, eppure decisivo per l’insieme armonico dell’ambientazione d’epoca di quella scena. E che Visconti fosse un regista amante del dettaglio lo sapeva bene anche il suo costumista, il grande Piero Tosi.

Le nuvole di Kubrick
Infatti, di Kubrick Pellegrini ricordava che «gli scenografi non lavoravano mai abbastanza in fretta…». In una intervista a Federico Greco raccontò che lui collaborava «con Harry Lange, accreditato ufficialmente come scenografo, e con gli altri due production designer del film, che in realtà erano scienziati della NASA, Tony Masters e Ernie Archer, dove il primo da alcuni fu considerano una sorta di co-autore del film, insieme a Kubrick, perché fu lui a coordinare tutto il lavoro di realizzazione scenografica, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione della navicella PanAm Orion». Gino dovette creare alcuni dettagli della scenografia: «ridipingere continuamente le nuvole per il modellino del pianeta terra vista dalla stazione spaziale, che misurava un metro per un metro e venti, e per ogni nuova inquadratura Kubrick voleva che la vista fosse diversa, come se le nuvole si fossero mosse veramente!».

Il ritorno
Tornato in Italia, Gino non lo fece sapere ai quattro venti che aveva lavorato a Hollywood, piuttosto si era ritirato nella sua arte e in una ricerca più personale prima di (ri)affacciarsi (anche) nel mondo dello spettacolo per creare murales e performances dal vivo. Come lui stesso descrive bene in questa breve biografia: «Dal 1957 al 1972 ho lavorato nel cinema hollywoodiano, con incursioni nel casinò di Las Vegas nel settore della scenografia. Dal mio rientro in Italia mi sono dedicato a varie espressioni artistiche: mostre di pittura, scenografie televisive, cinematografiche e teatrali, videoclip musicali, visioni pittoriche su pareti murarie esterni, allestimenti di mostre tematiche e altro… tutto ciò cerando di fare il meno danno possibile.» Era una presenza discreta ma cionondimeno assente, basti pensare che per molti anni Pellegrini ha creato interventi e workshop nei cosiddetti ospedali psichiatrici aperti dopo la legge Basaglia denunciandone le condizioni in cui vivevano queste persone e come venivano trattate.

Il suo era sempre stato un occhio (e non solo) critico sulla società in cui viveva, tant’è che nel corso della sua analisi della grafica della comunicazione, alquanto dominante e determinante in certi giornali di grande tiratura, come ad esempio il Corriere della sera, prese di mira le sue prime pagine per «retinizzare» i vari temi colorandone le singole colonne di testo degli articoli per far emergere quanto una prima pagina fosse orientata a spettacolarizzare temi anche drammatici quali attentati, omicidi, o altro. Correva l’anno 1976, ed era luglio…

La scrittura, lo sappiamo, equivale un po’ alla tessitura, altra pratica che Pellegrini aveva imparato da autodidatta creando veri e propri quadri e arazzi astratti con i materiali più diversi, dove riuscì con L’oro di Pulcinella, usando quei miniassegni usati come moneta di scambio nel momento in cui erano venute a mancare le monete di scambio per criticare la spinta capitalista dell’economia nel pieno boom degli anni ottanta del Novecento o Gold Rush.

I muri
Le sue performance sul palco erano quasi sempre destinate a fare rimanere a lungo sui muri tracce visive, come la Piazzetta Gerusalemme a San Giovanni in Persiceto vicino a Bologna, o il Monumento alla libertà della stampa e della stampa clandestina a Conselice nel Ravennate (dove tuttora ogni anno vengono organizzati incontri e/o convegni sul tema). Osservando lo stesso Gino Pellegrini in una di queste «azioni» filmate per la serie di brani in video, in cui egli aveva voluto fissare atti della sua tecnica chiamati I trucchi del mestiere, notiamo la vicinanza del suo «fare» arte agli Action Paintings di un Jackson Pollock americano (che sicuramente conosceva).

Gino Pellegrini, scenografo, era anche un ottimo insegnante avendo la grande dote dell’entrare in empatia con chi aveva di fronte, proprio come entrava in sintonia con l’immagine che andava creando avendo già visualizzato tutto nella sua mente, in un fluire unico di movimento del pennello, prolungamento del suo corpo che era sempre parte di quel processo creativo – anzi: c/re/attivo – nonché di scelta dei colori. E quando non c’erano i colori a «cantare» la melodia del suo cuore anche in opere eseguite su commissione, c’erano le sue parole, i suoi appunti, le frasi segnate ai margini di libri – tutto quanto da visionare nella sua casa-studio sull’Appenino bolognese, dove abitava negli ultimi tempi prima di morire nel 2014. Uno spazio creato in piena fusione tra il dentro e il fuori, com’era lui quando dipingeva e si poteva immaginare sin dai suoi movimenti più minimi il disegno base.

La mostra
Una per tutte, vogliamo raccontare qui la sua (ultima) opera di cui non rimane che la traccia preparatoria: una lettera immaginata dallo stesso Gino scritta dal fronte di uno dei soldati partiti giovanissimi per servire la Grande Guerra ai propri genitori. Fu scritta per una installazione sul tema da realizzarsi nel 2014, e che fu poi realizzata postuma dalla moglie Osvalda, con la quale ha vissuto ben oltre quarant’anni. Collaborandovi pure, come ci racconta lei, sorridendo, mentre ci accompagna per i diversi punti di interesse all’interno della mostra da lei curata alla Chiesa (sconsacrata) di San Francesco nella già nominata cittadina di San Giovanni in Persiceto, che si è tenuta fino a ottobre, Come un fiocco di neve.

Il titolo è una caratteristica dell’arte di Gino individuata da un bambino nella letterina che aveva scritto all’artista dopo aver partecipato a un laboratorio fatto con alunni delle scuole elementari di Terre d’acqua: «Ogni cosa che fa è sempre diversa da quella fatta prima, come i fiocchi di neve sono sempre diversi l’uno dall’altro»! Per altro il bambino aveva notato il suo tocco leggero, quello che si nota in tutto ciò che lui aveva fatto ma anche scritto: «un viaggio continuo alla ricerca della cultura che nasce dal coraggio di vivere la propria quotidianità, dalla identità che scaturisce dai posti dove metto i piedi…».