Facoltà di economia, Sapienza di Roma, presentazione del rapporto sullo stato sociale 2013 curato da Felice Roberto Pizzuti. Seduto accanto al presidente della commissione industria al Senato Massimo Mucchetti, ex vicedirettore del Corriere della Sera, l’ex ministro per la coesione territoriale Fabrizio Barca ieri mattina ha attaccato i critici delle politiche dell’austerità: «Ho il timore – ha detto – che il loro sia un alibi perché vogliono tornare alle politiche della spesa pubblica.

Invece il governo Monti ha fatto bene e sull’articolo 18 non ha fatto danni, non c’è stato un aumento dei licenziamenti individuali». Seduta in prima fila dell’aula 5, il segretario della Cgil Susanna Camusso ha avuto un sussulto: «Mi dispiace dirtelo – ha risposto a Barca – ma il tuo governo ha aumentato le diseguaglianze tra i redditi, ha distrutto il diritto allo studio, non ha contrastato la povertà, ha impoverito le pensioni attuali negandole ai più giovani». Uno scambio durissimo che ha fatto emergere le differenze macroscopiche che esistono a sinistra sulle soluzioni alla crisi del neoliberismo che ha imposto l’idea per cui lo stato sociale sia un costo da tagliare, non una risorsa. È una differenza politica di primo piano che tuttavia passa ancora inosservata nel mondo della postdemocrazia dove i «tecnici» tutelano gli interessi del rigore finanziario, non quelli della civiltà materiale, pubblica e statale, che ha rappresentato il Welfare per un breve periodo, in fondo, e per una ristretta categoria di lavoratori, in maggioranza dipendenti. Su questa base, il viceministro dell’Economia Stefano Fassina ha criticato i primi passi del ministro del Lavoro Enrico Giovannini, entrambi presenti in un’aula affollata.

Tanto per dimostrare la saldezza dei rapporti nel governo Letta, Fassina ha dubitato dei provvedimenti di Giovannini per risolvere il «dramma della disoccupazione giovanile». «L’austerità – ha detto – è una politica economica insostenibile. Bisogna intervenire a sostegno della domanda concertando con l’Ue». In attesa del consiglio europeo del 27 giugno che creerà un fondo contro la disoccupazione giovanile, nemmeno quello indicato da Fassina sembra un piano a prova di bomba. Il ministro delle finanze tedesco Schauble ha ribadito che gli interventi per i giovani dovranno rispettare i vincoli di bilancio. E le conseguenze sono contenute tutte nel rapporto sullo stato sociale che decostruisce i principali assunti ideologici dell’austerità.

Quello sulla spesa sociale, ad esempio. Prima della crisi, la spesa sociale nell’Europa a 15 si era stabilizzata intorno al 26%. poi è cresciuta insieme alle ore di cassaintegrazione. A maggio 2013 la richiesta di cassa straordinaria (Cigs) è aumentata dell’8,4%. Tutto questo ha avuto un costo: il 28,6% del Pil, una spesa più bassa di qualche decimale del 29% di media dell’Unione a 15. I neoliberisti al governo, e non solo, hanno invece sempre sostenuto che fosse «fuori controllo» e quindi hanno provveduto a «risparmiare» (cioè a tagliare). La stessa truffa sulle cifre è stata fatta sulla spesa pensionistica, così sproporzionata da favorire gli «anziani» invece dei «giovani», i tutelati contro i non garantiti. Argomento che ha portato una guerra sanguinosa anche a sinistra, ma che può essere affrontata con i dati. E qui c’è un’altra sorpresa: anche questa spesa è nella media europea, ma potrebbe essere inferiore perché è il risultato di un calcolo che non si fa in Europa. Essa include ad esempio il pagamento dei trattamenti di fine rapporto pari all’1,7% del Pil, o quello per i prepensionamenti. Ignorando questa differenza, la riforma Fornero delle pensioni permetterà un «risparmio» di 80 miliardi di euro tra il 2012 e il 2021: «Ciò corrisponde al taglio di servizi fondamentali – ha detto Pizzuti a Antonio Mastrapasqua, presidente dell’Inps che ha un bilancio in attivo sin dal 1998. Nel 2008 era di 33,1 miliardi di euro pari al 2,1% del Pil. Oltre ad avere creato oltre 300 mila «esodati» (di loro il governo Letta se ne occuperà a settembre, ma la Cgil chiede di anticipare), il governo Monti ha applicato la ricetta neoliberista: ha allungato l’età della pensione più alta d’Europa: 69 anni entro il 2040, serviranno 44-45 anni per la pensione anticipata. Ha rafforzato il blocco del turn-over e negato l’introduzione delle politiche attive del lavoro, obbligando così i più anziani a restare sul posto di lavoro mentre i più giovani resteranno disoccupati o precari più a lungo. A questo si aggiunge l’irrisorietà dell’Aspi che esclude praticamente tutti i parasubordinati e gli autonomi, e soprattutto discrimina le donne. Il welfare italiano si conferma centrato sul lavoro dipendente, soprattutto maschile. I sussidi di disoccupazione vengono erogati solo a chi può dimostrare di avere già avuto un’occupazione, una categoria dove le donne sono meno presenti. Sulle loro spalle grava anche il lavoro di cura dei bambini e degli anziani, ovviamente non riconosciuto dallo Stato.

La lettura di questo rapporto pubblicato dall’editore Simone (costa 29 euro) suggerisce un criterio diverso dal conflitto tra gli «austerici» attenti ai conti e le «cicale» che spendono e bruciano le ricchezze pubbliche a cui sembra rispondono le suggestioni di Barca. Negli ultimi due anni in Italia si è consolidati un modello di vita neoliberista: bassi salari, lunghi periodi di disoccupazione, milioni di persone che lavorano come «working poors» che non riceveranno pensioni dignitose. Non potranno curarsi perché nel frattempo al sistema sanitario nazionale tra il 2012 e il 2014 sono stati tagliati altri 27 miliardi di euro. E la loro vita dipenderà dall’andamento del Pil o da quello dello spread. Non è un’illazione da estremisti anti-austerity. Lo ha imposto la riforma Fornero delle pensioni (e prima quella Dini del 1996). Se l’Italia non cresce, i pensionati dovranno continuare anche dopo i 70 anni.