Cesare Pavese era un cinico in una società di ipocriti. Cinico come i filosofi cinici greci, Diogene, Antistene, Cratete, Ipparchia; cinico come i cani. Ma più timido, più irresoluto di loro. Il suo sogno: vivere nudo, in una comunità di persone che ammettano di avere un corpo, di essere corpi dalla testa ai piedi, e che lo mostrino, sinceramente, sulla terra, a contatto con il suolo, senza mediazioni.

La poesia di Pavese è piena di gente che si butta per terra e si stende sui suoi versi lunghi: «Il meccanico sbronzo è felice buttato in un fosso»; «Dopo un po’ i muratori si buttano all’ombra»; «e si butta sui sassi e si morde la bocca». È una delle situazioni più ricorrenti in Lavorare stanca: in almeno venti di queste poesie c’è qualcuno disteso sui prati, nei fossi, di notte o di giorno, all’ombra o al sole, vestito o anche nudo, a riposare o a voltolarsi sull’erba e nel fango; lo fa, o vorrebbe tanto farlo. Spesso è un barbone, un vagabondo, un ladruncolo, un ubriaco, un teppistello con i suoi amici, un ragazzo scappato di casa; c’è anche qualche ragazza oppressa dalla foia che va nei boschi di notte, per accoppiarsi con un caprone. E quasi sempre ognuno di loro viene chiamato con un nome comune di persona, non di battesimo, ma genericamente, «l’uomo lacero», «il pezzente», «il vecchione»: appartengono a qualche categoria di irregolari, di emarginati, che viene buttata fuori dalla società per una notte o per sempre, allo stesso modo in cui ciascuno di loro si ritrova buttato fisicamente per terra.

ABITANO NEI MARGINI inabitabili: in un fosso, lungo il muro di una casa, in un cantiere, sotto una vigna, per la strada. Pavese empatizza con questa umanità gettata sul fondale del mondo, schiacciata dal peso del vivere, dalla forza di gravità esistenziale.

Sono uomini e donne sostenuti soltanto dal suolo, che evita loro di precipitare ancora più in basso. Nonostante tutto, «Dormire / per la strada dimostra fiducia nel mondo». Le descrizioni che li riguardano sono fra le più vivide. Un uomo vestito di stracci, che è venuto a rubare la frutta tra i filari e ha trascorso la notte accanto a un muro di cinta, sogna che i contadini lo rincorrano per prenderlo a morsi, e al mattino ecco che ne arriva uno con la zappa al collo. Cosa fa? Lo bastona? Lo ferisce a zappate? No: camminando «non si scosta nemmeno», lo scavalca e passa via, perché deve andare a lavorare nei campi. Il contadino non ha tempo da perdere, né energia da sprecare: «un suo campo quest’oggi ha bisogno di forza». La trasgressione del vagabondo è irrisoria, non ha cambiato niente, non ha messo in discussione l’organizzazione del lavoro. È una scena che fa venire in mente un passo di Henry D. Thoreau: «Ma, ahimè!, gli uomini ora sono diventati strumenti dei loro strumenti. L’uomo che quand’era affamato coglieva i frutti liberamente, è diventato contadino; e colui che, per riposare, si stendeva sotto un albero, è diventato il guardiano della propria casa».

Non sono solamente gli irregolari a sostare nella fascia rasoterra della vita; anche placide donne anziane sentono la stessa attrazione: «piace pure alla vecchia distendersi al sole»; e piace alle ragazze insospettabili, come Gella, che ha fantasie sconvenienti, insubordinate: immagina di restarsene sola nei prati, «E aspettare la sera e sporcarsi nell’erba / e magari nel fango e mai più ritornare in città». Di più: Gella si perde a fantasticare di rimanere in quella melma «e impregnarsi i capelli, sudati e bruciati, / di rugiada notturna. Indurirsi le carni / e annerirle e strapparsi le vesti, così che in città / non la vogliano più. Gella è stufa di andare e venire / e sorride al pensiero di entrare in città / sfigurata e scomposta».

LA NUDITÀ ESPOSTA è un segreto da tenere per sé; il proprio corpo nudo, all’aperto, assorbe verità: come una specie di pannello solare, si carica di verità, per poi andare a portarla in giro segretamente. È quello che fa Dina, dopo un bagno nell’acqua gelida di un torrente: «È un piacere distendersi nuda sull’erba già calda». In quei momenti cerca con gli occhi socchiusi le colline, che sono le uniche entità ad accorgersi di lei: «e mi vedono nuda». Come mai viene sottolineato questo sguardo di Dina che, mentre è distesa svestita, cerca la complicità delle colline? Forse perché anche loro, come lei, sono nude, e possono scrutarla e capirla. La sera, Dina si mette un abito rosso e va a ballare, ma sotto quell’abito conserva il suo segreto: «non lo sanno che sono ora stesa qui nuda quegli uomini». La sua serata di balli e corteggiamenti la immagina già adesso, mentre se ne sta all’aperto senza niente addosso, soddisfatta della sua ribellione solitaria. Sa che gli uomini quella sera la desidereranno, le faranno «proposte da furbi», ma lei non ha bisogno delle loro carezze, può procurarsi piacere da sola: «So farmi carezze da me». In questo crescendo di autocompiacimento, però, in lei prende forma qualcosa di molto più impegnativo: un’utopia. «Questa sera dovremmo poter stare nudi e vederci / senza fare sorrisi da furbi». E così, basta una ragazza svestita sulla riva di un torrente per immaginare una società organizzata in un modo diverso, una vita comunitaria fondata su principî opposti a quelli in vigore. Vivere insieme la verità di tutti, senza malizia. Vale la pena di ripeterli, questi due versi, rileggendoli come se fossero una proposta di legge: «dovremmo poter stare nudi e vederci / senza fare sorrisi da furbi».

È un sogno creaturale eversivo che resta chiuso nella testa di una ragazza. Solo i versi di un poeta lo intuiscono e sanno come raccontarlo. Sono gesti e visioni che torneranno negli anni, per esempio nel romanzo Il diavolo sulle colline. E, prima, nel racconto «Nudismo», uno dei suoi più belli, raccolto in Feria d’agosto (1946). Anche in quel caso c’è un uomo che si mette nudo nella pozza di un torrente e si impiastra di fango. È una storia che raccoglie e porta a compimento molte aspirazioni di Lavorare stanca. Alcuni passi sembrano variazioni e sviluppi delle poesie, fin dalle prime righe, fitte di riferimenti ai suoi versi: «Son tornato al torrente dove venivo quest’inverno, e come succede in quest’ore calde mi è venuta l’idea di mettermi nudo. Non mi vedevano che gli alberi e gli uccelli. Il torrente è incassato in uno spacco della campagna. Se si ha un corpo, tanto vale esporlo al cielo. Le radici che sporgono dalla parete, sono nude». È un racconto stupendo, vorrei trascriverlo tutto. Ma già da queste poche citazioni si comprende come riproponga gli stessi slanci delle poesie. Al protagonista tornano in mente i bagnanti del Po: «Tutti quanti si svestono, tutti si cercano, e non uno che dica ciò che tutti hanno in mente – che il corpo è ben altro. Hanno avuto il coraggio di mettersi in gruppo, non han quello di fare ciò che tutti vorrebbero». (….)

IN «CIVILTÀ ANTICA», sempre in Lavorare stanca, c’era un ragazzo nudo nella sua stanza, che sbirciava la strada dalle imposte socchiuse: «Il ragazzo vorrebbe uscir fuori / così nudo – la strada è di tutti – e affogare nel sole». Ma «In città, non si può. Si potrebbe in campagna», se non ci fosse una presenza sopra di lui che lo giudica e lo inibisce: il cielo. Il poeta non solo conosce i pensieri del ragazzo, ma anche quelli che gli potrebbero venire in mente: «Passasse qualcuno / il ragazzo dal buio oserebbe fissarlo / e pensare che tutti nascondono un corpo». Invece a passare è un cavallo, che «se ne va, nudo e senza ritegno, nel sole». Senza ritegno, cioè con il sesso in mostra. «Se si ha un corpo, bisogna vederlo», pensa il ragazzo. Bisognerebbe poter vedere il corpo di tutti gli esseri umani. Ma i vecchi e gli adulti fanno come se non lo avessero: «nemmeno gli adulti / o le spose che danno la poppa al bambino / sono nudi».

LA MANIERA in cui gli esseri umani vivono in comunità è messa in crisi dai cinici veri, i cani. Da loro non deriva soltanto, etimologicamente, la parola «cinico», ma soprattutto la constatazione che esiste un altro modo di vivere. Sono loro l’esempio etico da imitare. Succede nella poesia «L’istinto»: un vecchio «deluso di tutte le cose» se ne sta in piedi sulla porta di casa e vede un cane e una cagna che si accoppiano «sulla pubblica piazza». Nessuno dei passanti si scandalizza, nessuno ha niente da ridire: né un prete, né una donna, che si ferma a guardarli. Solo un ragazzo li prende a sassate. Ma intanto al vecchio è tornato in mente quando anche lui ha fatto l’amore come loro, «da cane», all’aperto, in un campo di grano: non ricorda più con che donna, o meglio, «con che cagna»: sì, la definisce così, una cagna, non per disprezzarla, ma perché in cuor suo, adesso, davanti alla conclamata impudicizia di quella coppia di cani, si è identificato con loro, ha fatto la sua scelta, ha compiuto la sua secessione dal genere umano, anche se la attua solo nel ricordo, retrospettivamente; troppo tardi. Non si ricorda chi era la donna, «ma ricorda il gran sole / e il sudore e la voglia di non smettere mai». E se vivesse di nuovo, «Se tornassero gli anni», vorrebbe impostarla così, la vita, alla maniera dei cinici, vivendo e amando come i cani: «lo vorrebbe far sempre in un campo di grano».

PER LEGGERE Lavorare stanca e le altre poesie di Pavese si può entrare da questa porta d’ingresso, il cinismo, anche se è solo uno dei tanti varchi possibili. Il cinismo timido e irresoluto di Pavese è fatto di spudoratezza innocente, nudità creaturale, disinvoltura dei corpi, abbandono orizzontale alla terra, messa in dubbio della posizione eretta, fiducia nella forza di gravità, attrazione del suolo, all’aperto: sono atteggiamenti chiamati in causa contro il conformismo, l’ipocrisia, la frustrazione sociale.
Si può entrare in Lavorare stanca da qui, o da altre soglie, ma quel che conta è che si incontra una poesia diversa dal solito, narrativa e sintetica, che racconta storie senza soffocarle in una marea di dettagli. A volte sono momenti rivelatori, fatti di poco o nulla, che però riescono a scuotere l’impianto del mondo, dove «le case | sono ferme, piantate ai selciati».

© 2020 Giulio Einaudi editore S.p.A., Torino – Published by arrangement with The Italian Literary Agency

 

Pavese con Maria Bellonci allo Strega, foto LaPresse

*La nuova edizione con scrittori italiani

Einaudi propone in libreria dal 26 maggio, nella collana ET Scrittori, le opere di Cesare Pavese in una nuova edizione corredata di introduzioni firmate da scrittori italiani: Nicola Gardini per i «Dialoghi con Leucò; Paolo Giordano per «Il diavolo sulle colline»; Donatella Di Pietrantonio per «La casa in collina»; Wu Ming per «La luna e i falò»; Tiziano Scarpa per «Le poesie»; Domenico Starnone per «Il mestiere di vivere»; di Nicola Lagioia per «Tre donne sole». Il volume «Le poesie» è composto da «Lavorare stanca» (nell’edizione del ’36, con le poesie aggiunte nel ’43 e le altre non raccolte), «La terra e la morte», «Due poesie a T.», «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi».