Il riemergere di partiti e movimenti di estrema destra in Europa ed il convergere su di essi di porzioni consistenti di consenso popolare, sia empatico che elettorale, se da un lato ha configurato nella sfera pubblica un processo di «neocittadinanza» di istanze regressive quando non esplicitamente razziste, dall’altro ha finora sostanzialmente prodotto un dibattito sul tema del «ritorno del fascismo» che sembra avere come unico approdo quello di esorcizzare, attraverso la demonizzazione del sintomo, l’individuazione delle cause sostanziali che hanno determinato il fenomeno ed il suo manifestarsi.

SIANO ESSE di natura sociale (la crisi economica e la questione dei flussi migratori) o politico-valoriale (crisi dell’impianto ideale della politica) le linee di frattura entro cui è stato possibile per le forze dell’estrema destra incistare le comunità contemporanee sembrano far capo alle nozioni tanto della disgregazione quanto dei raggiunti limiti espansivi del sistema di riproduzione della ricchezza nelle società «mature».
I termini disgreganti emersi in rapida sequenza in questi ultimi anni in seno alla comunità internazionale hanno portato alla consunzione di sistemi politici consolidati ed alla fine materiale di forze e partiti politici che avevano caratterizzato il primo quindicennio della società globale post-89.

OGGI LE CANCELLERIE di tutta Europa, e con esse la stessa Unione, attraversano una crisi strutturale. In tutti i paesi pur nelle differenze di eredità storica e composizione politico-sociale sono emersi corpi di rappresentanza regressiva, di estrema destra e non solo, capaci di propagandare una divisione della società su base categoriale (migranti/cittadini; occupati/disoccupati; uomini/donne; garantiti/precari) e di distorcere le forme del conflitto, spostandolo dalle sue fisiologiche linee verticali (la contrapposizione tra classi subalterne e ceti dirigenti che ha garantito in termini storici il progresso) a quelle orizzontali che artificiosamente ne rovesciano il senso contrapponendo gruppi sociali nelle stesse condizioni e con gli stessi interessi e problemi.

Su questo terreno si colloca la necessità dell’antifascismo nella società contemporanea, non solo come valore o paradigma ideale ma come nesso di relazione storica con ciò che esso materialmente rappresentò in termini di risposta internazionale al movimento politico fascista. L’antifascismo rappresentò in Europa ed in modo peculiare in Italia una teoria dello Stato che, incarnata in una lotta reale delle giovani generazioni, fu capace di informare alla radice la rifondazione costituzionale dei paesi e delle società del continente.

Dopo l’esperienza internazionale della lotta antifascista tutti gli assetti politico-istituzionali post-bellici fecero i conti con l’eredità della Resistenza il cui portato valoriale e di diritti riformulò inclusivamente il perimetro delle cittadinanze e delle uguaglianze, a partire da quelle delle donne e delle classi popolari.

INSIEME ALLE GRANDI VISIONI politiche e ideali come il «Manifesto di Ventotene» l’antifascismo espresse, come ci ha insegnato Claudio Pavone, una nuova «moralità» che divenne patrimonio delle classi popolari al punto di farne un tratto connaturato alla loro identità sociale nonché saldato alla trasmissione della propria memoria storica individuale e collettiva. Al termine di decenni in cui quegli stessi ceti popolari si sono visti relegati nelle periferie urbane, culturali, sociali e politiche della società; hanno dovuto scontare sulla pelle le sofferenze e le umiliazioni della crisi economica; hanno assistito alla cancellazione dei loro diritti e quindi delle radici storiche da cui essi provenivano, il compito dell’antifascismo sembra di nuovo essere quello di restituire ruolo e identità nella sfera pubblica a quella parte così ampia della popolazione che oggi la cosiddetta «classe dirigente», ovvero i principali responsabili dei processi disgregativi, non esita a rappresentare come espressione di insane e primitive manifestazioni di populismo e sovranismo plebeo.

È IN QUESTA TEMPERIE che l’antifascismo diviene un programma. Ancora una volta chiaro e unitario, storicamente fondato, socialmente inclusivo, politicamente e orgogliosamente schierato. Di nuovo, come sempre, indispensabile.