Negli anni Trenta del secolo scorso, quando l’editoria italiana sollecitava l’aumento dei lettori creando collane di grande tiratura a un prezzo contenuto, i Romanzi della palma di Mondadori proponevano, per sole Lire 3, opere illustrate per l’occasione, distribuite in edicola a cadenza periodica con risultati di vendita sorprendenti. Indirizzati spesso a un pubblico femminile, come rivelano le variopinte copertine raffiguranti modelli di donna in voga all’epoca, e comunque a lettori interessati a opere di evasione non banali, questi testi propongono una narrativa di buon livello, talvolta destinata a durare nel tempo.

È IN QUESTA VESTE che vennero presentati al pubblico italiano romanzi di grande successo, fra cui quelli di Vicky Baum, scrittrice di best seller ebraico-tedesca e, dopo l’avvento del nazismo, autrice di sceneggiature di successo a Hollywood; o opere come Gatsby il Magnifico di Fitzgerald, in seguito noto con il titolo che gli conosciamo; o i libri di George B. Shaw, e di P.G. Wodehouse.

TRA I ROMANZI molto letti allora e ormai dimenticati, merita di non andare perduto Due vivi e un morto di Sigurd Christiansen, riproposto ora nella collana Introvabili di Minimum Fax (nella traduzione dell’epoca, di Jacopo Marini, pp. 185, euro 13) capace di affrontare temi profondi con quel ritmo rapido che allora, nel 1931, gli fece ottenere un prestigioso premio nordico e molto successo internazionale, assicurato da numerose traduzioni. Christiansen, nato nel 1891, è stato uno dei maggiori romanzieri norvegesi tra le due guerre, anche se questa è forse l’unica opera che gli è sopravvissuta, trasformata per ben tre volte in film, la prima nel 1937.
A dare avvio al romanzo è una rapina a mano armata in un ufficio postale di provincia, un episodio che alla quarta pagina ha già trovato una conclusione. Il thriller nordico degli ultimi decenni si basa su una trama che adotta convenzioni di stampo anglo-americano trapiantandole nel dibattito sociale, per ottenere un romanzo che tratterà di qualcos’altro oltre agli omicidi; e anche il romanzo di Christiansen, già allora, non si occupava quasi affatto del crimine, bensì dei suoi effetti sull’esistenza dei protagonisti.

NEL CORSO della rapina, il protagonista Berger (impiegato postale come era stato lo stesso autore per gran parte della vita) assiste impotente all’aggressione che causa la morte di un collega e il ferimento di un altro, entrambi colti di sorpresa. L’uomo valuta rapidamente i pro e i contro di un eventuale atto di eroismo e infine, consapevole dell’inutilità di qualsiasi reazione, consegna la cassa uscendone illeso.
Tutto il resto della storia affronta le conseguenze del suo atto: mentre il sopravvissuto – un uomo di scarso spessore – espone a lungo le sue bende come fossero una medaglia e a poco a poco intraprende una immeritata carriera, Berger, che pure aveva un curriculum irreprensibile, viene prima sospettato di esser complice dei colpevoli, poi subisce la disapprovazione della moglie e infine il disprezzo della piccola comunità in cui vive, fino a ritrovarsi costretto a trasferire la famiglia altrove nel tentativo di cancellare quella macchia dal proprio passato. Solo la vedova del collega vittima della rapina, che era anche il suo migliore amico, lo approva: rimasta sola con un bambino, presto dimenticata dalla società, la donna è una figura chiave del romanzo. Ha la precisa percezione di quanto sia stata inutile la morte del marito ed è l’unica a infondere coraggio al protagonista: non a caso l’edizione italiana del 1933 la ritrae, bionda nordica vestita a lutto, in copertina.

QUANTO A BERGER, non dubita di sé e sa bene, avendo avuto il tempo di riflettere, di aver valutato le conseguenze meglio dei colleghi: non è stata la viltà a indurlo a non privare la famiglia del suo sostegno indispensabile. Ma per quanto radicato nella sua convinzione, non riesce a trascinare dalla sua parte anche gli altri. Finché un incontro fortuito lo porterà a dimostrare una volta per tutte, con uno stratagemma, che la ragione è dalla sua, e che anche il dipendente ferito, se avesse avuto il tempo di riflettere, avrebbe agito esattamente come lui. È quanto basta a Berger per soddisfare la propria coscienza e riprendere a vivere serenamente.
Sensi di colpa e responsabilità, nei confronti della vita propria e soprattutto altrui, ma anche la sottile differenza che passa tra ciò che è giusto e ciò che si rivela sbagliato, insieme alle pressioni sociali e persino ai danni di una esposizione mediatica, sono i motivi che più della minima componente thriller rendono il romanzo un’opera forse oggi più attuale che al momento della sua pubblicazione.