Giancarlo Majorino era l’ultimo poeta ancora vivo fra quelli che una bellissima antologia di alcuni anni fa dedicata alla poesia italiana del Novecento, a cura di Ermanno Krumm e Tiziano Rossi, aveva ascritto al «cuore del secolo». All’interno di questo canone figuravano accanto a lui, per dire, poeti quali Pasolini, Fortini, Raboni, Erba, Giudici, Pagliarani, Volponi, Sanguineti, Testori, Zanzotto; e pochi altri ancora.

Li precedeva la generazione dei maestri, da Saba a Montale, a Quasimodo, Luzi, Penna, Caproni, Sereni. Ed è allora un po’ come se, con Majorino, quel cuore del Novecento, i cui esponenti erano nel frattempo diventati maestri a loro volta, avesse cessato definitivamente di battere: rimane nelle opere di chi lo ha incarnato, naturalmente, ma ormai definitivamente fissato, appunto – definitivamente canonizzato.

Majorino, in particolare, era nato nel 1928, e quindi aveva più di novant’anni, ma la sua era una poesia ancora in corso, ancora pulsante, se è vero che la sua ultima raccolta, La gioia di vivere (Mondadori), risale ad appena tre anni fa, al 2018: e quello stesso titolo, La gioia di vivere, testimonia meglio di qualunque altra allusione o di qualunque discorso critico il desiderio mai venuto meno di esserci, di partecipare.

E DEL RESTO era questa la cifra costante della sua intera poetica, aldilà di ogni naturale evoluzione stilistica e contenutistica nelle opere, quasi trenta, via via pubblicate (la prima, La capitale del nord, nel 1959): l’adesione al reale, alla realtà, all’esistenza nel suo dato concreto, anche sociale e politico, e perfino prosaico. «Chi scrive», aveva precisato lui stesso in una dichiarazione quasi programmatica, «non può che scrivere stando in mezzo alla gente, non sopra o, comunque, staccato». E non a caso lo si è definito come un «poeta civile»: o come un poeta, è stato aggiunto (da Vincenzo Guarracino), fedele al tempo, al suo tempo, alla volontà di abitarlo e di rappresentarlo, attraverso la poesia, in tutte le sue espressioni e anche in tutte le sue contraddizioni.

Forse per questo la sua poesia, pur così sprofondata nella vita e così contaminata nel registro formale da elementi di ogni genere, era tuttavia tutt’altro che immediata, piana. Come a voler esprimere, in questo modo, che nessuna parola poetica potrà comunque mai contenere la vita nella sua eccedenza, nella sua esorbitanza, nel suo resto; o che, tutt’al più, a questo «resto» la parola poetica, in quanto tale, può solo provare a dare una forma.

PARE CHE QUALCUNO gli avesse chiesto perché i suoi versi fossero complicati, e che lui avesse risposto: «Ma perché, la vita è una cosa facile?». È morto a Milano, Majorino, dov’era nato e dove ha sempre vissuto e lavorato (come impiegato di banca, agli inizi, e poi come insegnante). Una delle contraddizioni della vita è anche il fatto che sia morto giusto nel giorno in cui finalmente gli era stato assegnato il vitalizio della legge Bacchelli, per il quale Luigi Manconi si stava battendo dal 2019.