Il dibattito sullo ius soli vale qualcosa più di un gol. Almeno in teoria. Se la cittadinanza «per nascita» viene applicata in appena 30 stati su 194, quando si tratta di pallone, le maglie della legge si allargano e basta un lontano parente per farsi rilasciare un passaporto nuovo a tempo di record. In Italia se n’è discusso parecchio di ius soli, negli ultimi tempi, ma tra confusione ideologica e un mai abbandonato razzismo di fondo, alla fine si è deciso che chi nasce tra le Alpi e la Sicilia può chiedere la cittadinanza italiana soltanto tra i 18 e i 19 anni. Prima c’è un limbo giuridico oscuro e senza garanzie, dopo soltanto le non meglio specificate «procedure ordinarie».

Il dibattito si è sviluppato per lo più a colpi di battute xenofobe, ululati, banane e cori razzisti a volte contro l’ex ministro Cécile Kyenge e a volte contro Mario Balotelli, l’attaccante nero nato a Palermo e che parla in bresciano stretto. Quando ha segnato il gol decisivo nella porta dell’Inghilterra, i tifosi nottambuli si sono abbracciati tra di loro, in un abisso di cattiva coscienza e rimozione di tutti gli insulti detti, pensati e ripetuti negli anni.

La questione non riguarda soltanto casa nostra, ma un po’ tutti i paesi occidentali. Ma come funzionerebbero i mondiali senza lo ius soli? Come sarebbero ridotte le nazionali senza i cittadini di seconda generazione e gli oriundi?

A dare qualche risposta ci ha pensato il giornale online statunitense Global Post, con un articolo del corrispondente berlinese Jason Overdorf. Inutile dire che il mondiale ne uscirebbe stravolto, tra questioni coloniali ancora aperte, immigrati, emigrati e calciatori che hanno più passaporti di un agente del Kgb.
Persino i campioni del mondo della Spagna, che hanno allevato una delle generazioni pallonare più forti della storia, in attacco hanno convocato Diego Costa, nato in Brasile, già selezionato in passato da Scolari e che per poter giocare con le furie rosse ha dovuto addirittura rinunciare al passaporto carioca. Altroché falso nueve, Diego Costa, centravanti puro, si è guadagnato la chiamata di Del Bosque a colpi di gol (37 in stagione) con il miracoloso Atletico Madrid di Simeone.

Poi ci sono quelli che alla Spagna gli hanno spaccato le ossa subito, gli olandesi. Qui, senza i lasciti delle colonie, la squadra semplicemente non esisterebbe: fuori il portiere Michael Vorm, nato a Utrecht da genitori immigrati, l’ala Jermains Lens (Suriname), il centrocampista del Milan Nigel De Jong (anche lui surinamese di origine), Bruno Martins (portoghese di nascita) e l’attaccante Guzmàn, nato a Toronto, in Canada.

L’Uruguay, terzo allo scorso mondiale, perderebbe il portiere ex Lazio Fernando Muslera, argentino, ma in questo caso è difficile dire se gli svantaggi sarebbero davvero superiori ai vantaggi.

L’Italia perderebbe, oltre al già citato Balotelli (che ha parenti in Ghana) anche il difensore Paletta, argentino. Senza cittadini di seconda generazione, la Francia avrebbe dovuto lasciare a casa mezza squadra a partire da Paul Pogba (Guinea) per arrivare a Karim Benzema (Algeria), con altre vittime illustri quali Moussa Sissoko (Mali), Mamadou Sakho (Senegal), Patrice Evra (Senegal), Matthieu Valbuena (Spagna), Blaise Matuidi (Angola), Raphael Varane (Antille), Loic Rémy (Martinica), Eliaquim Mangala (Congo), Rio Mavuba (Angola), Bacary Sagna (Senegal). Se è vero che i francesi hanno una storia coloniale lunga e complessa, Marine Le Pen e i suoi hanno le idee piuttosto chiare su quale dovrebbe essere il destino degli immigrati che non giocano troppo bene a pallone.

Anche la Svizzera, che a febbraio ha introdotto per referendum un tetto all’immigrazione, si ritroverebbe una squadra di scartini, togliendo gli «stranieri». Fuori, il talentuoso centrocampista Goran Inler, Haris Seferovic, Granit Xhaka, Blerim Dzemaili, Tranquillo Barnetta, Xherdan Shqiri e Mario Gravanovic.

L’Argentina, dal canto suo, perderebbe Gonzalo Higuain, che è mezzo francese, poi ci sarebbe da risolvere anche il caso di Pablo Osvaldo, che prima di vestire la maglia azzurra dell’Italia aveva detto a tutti che gli sarebbe piaciuto parecchio giocare con l’Albiceleste.

La nazionale tedesca, già da qualche anno, si è fatta la fama di squadra multietnica. Senza ius soli calcistico, il ct Loew avrebbe dovuto rinunciare a Mesut Ozil (Turchia), Miro Klose (Polonia), Sami Khedira (tunisino da parte di madre), Shkodran Mustafi (Albania) e Lukas Podolski (Polonia), e Jerome Boateng, ghanese, che ha scelto la Germania, mentre suo fratello, l’ex milanista Kevin Prince, gioca con la nazionale africana.

Gli Stati Uniti schierano Jozy Altidore (genitori di Haiti), Omar Gonzales (Messico), Mix Diskerud (Norvegia), Jermaine Jones (Germania), Fabian Johnson (Germania), Alejandro Bedoya (Messico), John Brooks (Germania), Timmy Chandler (Germania), Julian Green (Germania). Una curiosità: il mediano della nazionale iraniana Steven Beitashour è nato in California e nel 2012 fu pure convocato dagli Usa per un’amichevole. L’anno successivo, però, ha esordito con la maglia dell’Iran, contro la Thailandia.

Pure il Belgio dei baby fenomeni dispone di qualche gioiello naturalizzato: Fellaini ha il passaporto marocchino, Axel Wistel della Martinica, i genitori di Moussa Dembélé sono nati in Mali, Kevin Miralla ha origini spagnole, Romeli Lukaku viene dal Congo.

Passaporti e genitori che vengono da lontano, la questione della cittadinanza è un dibattito che infiamma un po’ tutti i paesi occidentali, e l’avanzata dell’estrema destra alle europee la dice lunga su quale sia la tendenza generale. Quando si gioca a pallone, però, la storia appare diversa, e anche le beghe diplomatiche non sembrano poi così grandi. Un calcio al razzismo. Oppure questione di soldi.