L’’Italia è stato il primo tra i Paesi europei a cogliere la necessità di un intervento pubblico per frenare lo spopolamento delle aree del Paese considerate marginali, in particolari quelle montane di Appennini e Alpi ma non solo.

NEL 2013, SU IMPULSO DELL’ALLORA ministro per la Coesione Territoriale Fabrizio Barca, è iniziato il lavoro della Strategia Nazionale Aree Interne (Snai), con l’obiettivo di affrontare il problema del declino demografico a partire da una nuova lettura del contesto territoriale: le persone non abbandonano i borghi o i piccoli Comuni – secondo la definizione di legge quelli sotto i 5 mila abitanti – perché attratte dalle maggiori opportunità delle aree urbane, ma perché esistono zone del Paese ormai troppo lontane dai centri di offerta dei servizi essenziali, che sono istruzione, salute e mobilità.

ECCO CHE ESISTONO COMUNI CARATTERIZZATI da una «perifericità spaziale», che vengono definiti come «aree interne» e che oltre alle montagne si trovano anche in zone come il Sud Salento o il Delta del Po. Per definire chi vive nelle aree interne è stato usato un criterio di distanza, misurata in minuti di percorrenza, perché in determinati contesti la distanza in chilometri potrebbe falsare il quadro d’insieme, di ogni singolo Comune rispetto al polo più prossimo. Il risultato è che sono classificati come aree interne oltre 4 mila Comuni, che coprono circa il 60% del territorio italiano. In questi territori vivono circa 13 milioni di persone, il 22% della popolazione italiana: la questione delle aree interne non è affatto marginale. Anche perché l’intera società italiana ha pagato un costo elevato a causa dell’abbandono dei territori rurali marginali, in termini ad esempio di dissesto idrogeologico, degrado e consumo del suolo.

IL PROBLEMA E’ CHE POLITICHE a dimensione urbana non rispondono alle esigenze dell’altra Italia. Se il Paese vuole far sì che la retorica del «ritorno ai borghi» che ha conquistato la narrazione anche giornalistica nei mesi del lockdown del 2020 possa aiutare a un ripopolamento dell’Italia interna, c’è una strada da percorrere: ridurre l’esclusione sociale di chi vive nelle aree interne. Come? Offrendo una scuola di qualità (con interventi anche architettonici sui plessi, una formazione specifica per l’insegnanti e misure di gratificazione che frenino il turnover) e un servizio di salute territoriale dignitosa (anche prevedendo l’inserimento di figure innovative, come l’infermiere o l’ostetrica di comunità), garantire la copertura con la banda larga e trasformare un sistema di trasporti locali rigido, fatto di grandi bus inutili e vuoti come quelli descritti da Gianni Augello nel libro L’Italia che resta (Ediciclo, 2021). Va affrontato, infine, il tema dell’accesso alla terra e della frammentazione della proprietà, per garantire un presente e un futuro a potenziali giovani agricoltori. Secondo Fabrizio Barca si tratta di «attuare l’articolo 3 della Costituzione, rimuovere questi ostacoli e ridurre così le disuguaglianze, aumentando «l’efficienza capitalistica», permettendo che – anziché andarsene – chi vive in questi territori manifesti le proprie idee imprenditoriali».

PER COMPRENDERE IL PUNTO DI VISTA di chi vive nelle aree interne, e in particolare dei giovani, è utile guardare ai risultati del sondaggio promosso dall’associazione Riabitare l’Italia (https://riabitarelitalia.net) su un campione di 1.008 giovani tra i 18 e i 39 anni. I risultati aiutano a ribaltare la prospettiva, contro ogni retorica dei giovani sdraiata sul divano con il reddito di cittadinanza. Chi sono? Il 54% degli intervistati ha trascorso del tempo fuori dal proprio comune in cui vive abitualmente per esperienze di lavoro. Il 41% ha frequentato o sta frequentando l’università. Il 67% dei soggetti intervistati sono lavoratori. Il 44% ha un contratto a tempo indeterminato, e il 22% a tempo determinato. Il 67% degli intervistati è orientato a rimanere nel comune delle aree interne in cui vive. In particolare, il 50% degli intervistati è orientato a restare pianificando lì la propria vita e il proprio lavoro mentre il 15% è orientato a partire, anche se preferirebbe restare.

TRA CHI RESTA, I FATTORI A CUI VIENE attribuito molto peso nella scelta sono la migliore qualità della vita dal punto di vista ambientale e dello stile di vita (79%), la possibilità di avere contatti umani e sociali più gratificanti (67%) e il minor costo della vita (60%). Le motivazioni principali nella scelta di partire vengono individuate dalla maggior parte degli intervistati nelle opportunità in termini di qualità del lavoro e della formazione (84%) e nella possibilità di accedere a migliori condizioni di vita per l’offerta di servizi culturali, sociali, assistenziali (77%).

DAL SONDAGGIO – REALIZZATO su un campione rappresentativo – emerge anche un’importanza prospettica delle attività agro-silvo-pastorali: solo il 9% degli intervistati ritiene che la motivazione principale per rimanere in agricoltura sia la mancanza di valide alternative di lavoro e solo il 6% non vede motivazioni valide per lavorare in ambito agricolo. Oltre ogni retorica.