Quattordici senatori si «autosospendono» dal gruppo del partito democratico. Uno di loro, Corradino Mineo, è il senatore che l’ufficio di presidenza del gruppo ha deciso mercoledì sera di estromettere dalla commissione affari costituzionali perché è contrario al progetto di riforma del senato sostenuto dal governo e non offre garanzie sul suo voto. Voto che poteva risultare decisivo per bloccare in commissione il disegno di legge Renzi-Boschi, che adesso invece può contare, sulla carta, su quindici voti contro quattordici. Una stretta maggioranza per andare avanti a cambiare 45 articoli della Costituzione.

La protesta dei senatori diventa clamorosa quando il senatore Corsini, un cattolico ex sindaco di Brescia, la annuncia in aula a palazzo Madama e prende gli applausi del Movimento 5 stelle e di Forza Italia. Per i renziani è una dichiarazione di guerra. Interviene direttamente il presidente del Consiglio, che rivendica quella che in teoria doveva essere una scelta autonoma del gruppo. «Non ho preso il 41% per lasciare il futuro del paese a Mineo», dice. I suoi intervengono a rullo, battendo sullo stesso tasto. «Sono solo 13 senatori? Ce ne aspettavamo 20 – dichiara liquidatorio il braccio destro del premier, Luca Lotti – sono 13 contro 12 milioni di voti alle europee, Mineo ha tradito l’accordo con il gruppo». «La palude non può fermare le riforme», scandisce l’ultras renziano Marcucci. E la ministra delle riforme Boschi ci mette la firma: «Non ci fermiamo per 13 senatori». Stessa musica anche dalle correnti della ex minoranza. Gli ex bersaniani, ora nell’area riformista, spiegano che «una minoranza non può contribuire a determinare una maggioranza diversa rispetto a quella sostenuta dal gruppo» (Gotor). I «giovani turchi» bollano come «grave errore» la scelta dell’autosospensione, perché «la stragrande maggioranza degli italiani attende le riforme» (Verducci). Al di fuori del gruppo dei «dissidenti», composto essenzialmente dalla minoranza civatiana e da «bindiani», solo Civati, il senatore Manconi e il deputato Fassina condannano la defenestrazione di Mineo. Gli «autosospesi» Mucchetti e Casson spiegano le ragioni del gruppo: «Che cosa accadrà in futuro quando dei senatori del Pd maturassero idee differenti da quelle del capo? I dissidenti verrebbero spostati da una commissione all’altra? – chiede Mucchetti – Vi sembra seria l’epurazione continua? Già che ci siamo sarebbe più trasparente abolire del tutto l’articolo 67 della Costituzione». Che è quello che stabilisce che un parlamentare non ha vincolo di mandato, difeso in passato – contro Berlusconi (vedi box in queste pagine) – dal capogruppo Zanda, artefice della «sostituzione». Zanda incontrerà lunedì i «dissidenti», il giorno dopo ci sarà un’assemblea del gruppo. A Mineo intanto si ricorda il suo essere stato «paracadutato» a capo delle liste (bersaniane) in Sicilia, destino che però condivide con molti.

Domani è il giorno dell’assemblea nazionale del partito in cui Renzi rivendicherà, già dalla scenografia, il diritto di imporre la sua forza elettorale. Nessun problema per lui: ha dalla sua circa l’85% dei delegati. Numeri che chiudono il discorso anche per eventuali ricorsi dei quattordici, malgrado lo statuto dei senatori Pd riconosca esplicitamente la libertà di coscienza sulle riforme costituzionali (articolo 2 commi 1 e 5).

La linea è quella, già berlusconiana, che chi ha il consenso prende tutto. «Valgono i voti, non i veti», dice il segretario. È il contrario di quanto aveva detto in campagna elettorale, quando aveva assicurato che alle europee non si votava in alcun modo né per lui né per il governo. Nel merito della riforma costituzionale, poi, è precisamente ai voti che intende rinunciare, avendo fatto la scelta di un senato non eletto dai cittadini e senza potestà legislativa piena. Malgrado adesso debba fare affidamento sulla seconda lettura di palazzo Madama per correggere la norma sulla responsabilità civile dei magistrati approvata alla camera.

Ma perché Renzi ha deciso lo show-down che, se tutto va bene, gli garantisce solo l’approvazione del suo testo in commissione? Il problema in aula resta tutto perché senza Forza Italia e la Lega il Pd può contare su un margine ristretto di vantaggio, nove voti che i «dissidenti» possono facilmente abbattere, posto che oltre ai 14 «autosospesi» ci sono altre cinque che hanno firmato il testo alternativo del senatore Chiti. La ragione è che al segretario interessa un successo di tappa per piegare le resistenze berlusconiane. La punizione esemplare vale a fini interni, «la musica – ripete spesso – è cambiata». Per concludere sul serio con le riforme e le legge elettorale avrà bisogno di riportare Berlusconi nel patto. Fin qui il Pd ha aspettato lui, non il senatore Mineo.