Fortunatamente, dopo mesi di approssimazioni e di confusione, il quadro politico italiano si è inequivocabilmente chiarito.

Su di un primo versante, sappiamo ormai con assoluta certezza di essere governati da una compagine per certi versi poliforme ma, senza ombra di dubbio, complessivamente e strategicamente, di centro-destra. Che lo sia dal punto di vista delle politiche economiche e sociali (Jobs act, e quant’altro), lo hanno argomentato e dimostrato molti autorevoli commentatori, soprattutto, et pour cause, sulle colonne di questo giornale (ma, a dir la verità, non solo). Vorrei però aggiungere qualcosa in merito alle tendenze politico-culturali cui si ispira in profondità il nostro governo.

È vero, abbiamo all’inizio sottovalutato Matteo Renzi, scambiandolo per un piccolo avventuriero di provincia. Forse lo è, e lo resta; ma nelle dimensioni e caratteristiche della crisi italiana, la sua statura tende indubbiamente a crescere. Ad esempio: la «rottamazione». Sembrava una battuta propagandistica per far fuori, anche agli occhi di un’opinione pubblica stanca e disincantata, la vecchia dirigenza di centro-sinistra.

Renzi non si limita ad auspicare e perseguire la rottamazione della vecchia dirigenza del centro-sinistra. Renzi auspica e persegue la rottamazione di tutto il «sistema» che secondo lui l’avrebbe prodotta e resa possibile: la primazia del parlamento sul governo; la separazione dei poteri; l’organizzazione collettiva e comunitaria della politica (vulgo, i partiti, o quant’altro al loro posto); il rispetto delle minoranze e l’attenzione nei loro confronti; la dialettica politica/cultura (capirai: gli «intellettuali»…). Insomma, quanto fu elaborato e statuito nella nostra «vecchia» Costituzione, a ridosso della catastrofe fascista, allo scopo precipuo di renderne impossibile la resurrezione in qualsiasi forma.

Né più né meno, dunque, che il programma di Silvio Berlusconi, ma radicalizzato ed efficacizzato dal fatto di portarlo avanti non da una posizione di destra, – laddove appariva troppo scopertamente per quel che era, e cioè un programma di destra, – ma da una posizione di centro-sinistra, – laddove può più facilmente esser gabellato per quel che non è, e cioè, un programma riformatore di centro-sinistra. Ma non c’è solo questo.

Recentemente ho assistito alla proiezione di un bellissimo documentario sui rapporti fra lingua italiana e fascismo, prodotto dall’Istituto Luce ed elaborato da una linguista del calibro di Valeria della Valle. Il documentario s’intitola: «Me ne frego», riprendendo uno stilema classico, uno stereotipo esemplare, del modo di parlare, e dunque di pensare, del fascismo. Visionando il documentario, mi è accaduto di pensare che ogniqualvolta in Italia c’è una profonda crisi delle istituzioni e degli assetti politici precedenti il leader che mira a impadronirsi senza remore né condizionamenti del gioco, adotta mentalmente, prima che linguisticamente, il motto fascista «Me ne frego».

È innegabile altresì che tale modo di pensare e di esprimersi, quando si è in presenza, ripeto, di una profonda e reale crisi delle istituzioni e degli assetti politici precedenti, risulta estremamente seduttivo presso le masse popolari italiane disorientate e sconfitte. Del resto il «Vaff…» di Grillo appartiene, più o meno, alla stessa specie, – mentale e oggi, ahimè, anche politica (su questo si potrebbe e dovrebbe aprire un lungo discorso di natura storico-culturale, che rimandiamo a un tempo migliore).

Una prima considerazione che si può trarre da questa sommaria ricostruzione degli eventi è che non ci si può opporre, – come giustamente occorre fare, – alla rottamazione del sistema democratico-costituzionale, senza cogliere al tempo stesso, e denunciare, e chiederne il superamento, di tutte le sue, attualmente, incomparabili deficienze e brutture e insufficienze, e talvolta indescrivibili, sovrumane defaillances. Il rinnovamento, se dev’essere concepito e passare, passa per due fronti, contemporanei e convergenti, non alternativi: la lotta contro la tendenza autoritaria, leaderistica, filoproprietaria, del renzismo; e la lotta contro le degenerazioni endemiche e in taluni casi il vero e proprio spappolamento del sistema democratico-costituzionale, che, in linea di principio, vorremmo difendere. Chi separa le due cose, va alla sconfitta.

Nel secondo versante, è emersa nel paese, nel corso degli ultimi mesi, una consistente resistenza di natura sociale. Ma guarda un po’: il lavoro, i lavoratori, la classe operaia… O non erano azzittiti per sempre, anzi seppelliti, da un bel pezzo? Pare di no. E quest’osso è duro da rodere, non si sbriciola, come è accaduto ad altri, facilmente. Anche il fatto che la Cgil, i sindacati, siano scesi (siano stati costretti a scendere?) in campo è un dato tutt’altro che irrilevante. E a questo proposito: le puzze sotto il naso in questa fase storica, sono da considerare mortali, e perciò evitate con la massima cura. E questo soprattutto quando entra in gioco quell’elementare principio discriminante, per cui si sta o da una parte o dall’altra. E qui, in questo momento, l’aspetto determinante, decisivo, è stare inequivocabilmente o da una parte o dall’altra.

Certo, un’opposizione sindacal-sociale senza un’opposizione politica è un’opposizione monca, indebolita proprio sul terreno, quello parlamentar-governativo, sul quale nei prossimi mesi accadranno cose decisive (la legge elettorale e, massimo dei massimi, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica). Qui vorrei dire una cosa inutile ma doverosa. Desta stupore, e indignazione, che la massa degli eletti Pd alla camera e al senato (non parlo di alcune ristrette minoranze ma, precisamente, della grande massa degli iscritti eletti), mandati a governare il paese con una diversa maggioranza di partito e con un diverso, diversissimo programma, abbia seguito, e accompagnato, l’instaurazione a capo assoluto di Matteo Renzi, e poi le sue alleanze, ipotesi istituzionale e costituzionali, e persino la fredda distruzione del loro stesso partito, il Pd, con la passività più assoluta.

Evidentemente la degenerazione precede la rottamazione e l’aiuta, anzi, da un certo momento in poi, non solo la giustifica ma la rende necessaria. Se non si riparte con il massimo del rigore dalla formazione delle élites politiche, e dalle loro nuove persuasioni e abitudini, anche in questo caso non si cava un ragno dal buco.

Tutto ciò, com’è evidente, non fa che riprendere considerazioni e ammonimenti che circolano ormai da tempo nel campo della sinistra non (ancora?) logorata, o non del tutto, dal contatto con il potere. Che sia arrivato il momento di ridare vita a una Camera di consultazione della sinistra, sperando che questa volta non ci sia qualcuno che la manda in vacca per assicurarsi una vecchiaia decente, anzi di grande benessere economico?

Oppure esistono le condizioni per convocare, più ambiziosamente (e forse prematuramente) una vera e propria Costituente della sinistra? Ma anche qui: tutto inutile, se si tenta di farla passare per la cruna dell’ago di un’estrema coerenza ideologica e storica. Le ragioni di un’opposizione comune allo sfacelo democratico prevalgono persino, all’inizio, su quelle del progetto rinnovatore. Più che altro si tratta di difendere la possibilità di un futuro, non di salvare e proseguire un dignitoso passato.

P.S. Last but no least: «il manifesto». Io dico: se non ci fosse, tutto quello che s’è detto finora, e che altri come noi dicono e fanno, e diranno e faranno, non avrebbe né senso né dimensione. Questa persuasione deve passare «per li rami», diffondersi universalmente, arrivare a tutti quelli che lottano, e da lì ripartire per tornare al giornale, insostituibile tribuna e palestra di una sinistra nonostante tutto ancora in movimento.

Speriamo che in molti condividano quest’appello che parte dal giornale e, coerentemente con quello che fanno nelle lotte sociali e politiche, si comportino di conseguenza.