Costruire un modello teorico che possa descrivere il lavoro oggi significa confrontarsi con forme lavorative che mettono in discussione le categorie impiegate per leggere il lavoro taylor-fordista. Se questo si articolava secondo una netta linea di demarcazione che opponeva mente e corpo, il lavoro oggi si esplica precisamente nell’indistinzione dei due ambiti. In questo senso, pensare il lavoro contemporaneo significa innanzitutto pensare il linguaggio. È la tesi di Angelo Nizza presentata nel suo Linguaggio e lavoro nel XXI secolo. Natura e storia di una relazione (Mimesis, pp. 197, euro 12). La relazione che intercorre tra linguaggio e lavoro richiede dunque l’elaborazione di un modello teorico che, denuncia l’autore, è stato lasciato per lo più ai margini del pensiero filosofico.

A ESSERE CADUTA, spiega, è l’opposizione tra praxis (attività senza opera) e poiesis (attività con opera), tra linguaggio e produzione, coppia concettuale che, da Aristotele in poi, ha avuto differenti declinazioni nel pensiero di filosofi e filosofe, riepilogate nel primo capitolo (Hegel, Marx, Gehlen, Habermas, Arendt, Austin).
Dopo l’illustrazione di una vasta letteratura sociologica sulla metamorfosi dell’industria e dei servizi a partire dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (Gorz, Rifkin, Zarifian, i teorici del capitalismo cognitivo, i linguisti del gruppo Langage et Travail), nucleo centrale del libro è l’analisi dei tre maggiori paradigmi del pensiero italiano contemporaneo che hanno il merito di aver esplorato l’indistinzione di praxis e poiesis: il modello dell’inoperosità di Giorgio Agamben, la tesi di Ferruccio Rossi Landi sul linguaggio come lavoro e la pista aperta da Paolo Virno e dagli operaisti circa il lavoro come linguaggio. Se l’inoperosità di Agamben fatica a leggere il divenire linguistico del lavoro, scambiandolo per fine del lavoro e fine della vita attiva, la proposta di Rossi Landi opera uno schiacciamento dell’agire linguistico sulla produzione, omettendo il vero soggetto della trasformazione, il lavoro.

NIZZA, ALLORA, si schiera a favore del modello di Virno, perché ha il pregio di assumere il mescolamento tra praxis e poiesis, evadendo tanto le teorie della fine del lavoro e dell’inoperosità, quanto il riduzionismo che vedrebbe il linguaggio esclusivamente come un’appendice della produzione. Adottando questa cornice analitica è possibile leggere lavori che, spesso considerati come forme di liberazione, si rivelano essere faglie di sfruttamento. Quello di cura, relazionale e affettivo, il lavoro freelance o di molti migranti – come ricorda Marco Mazzeo nella post-fazione -, caratterizzati da flessibilità, creatività, relazionalità e attività non ripetitive, mostrano che oggi «sono le merci che prendono a modello le parole: le prime si spiegano per mezzo delle seconde e non viceversa».
In questa prospettiva, sebbene il libro si concentri su fenomeni lavorativi specifici (l’operaio della fabbrica automatizzata, l’operatore finanziario, il freelance), riesce a dialogare anche con differenti forme contemporanee di estrazione del valore.

IN FENOMENI quali l’estrattivismo, il lavoro di cura, storicamente legato al genere femminile, e il lavoro clinico vi è una completa elisione tra corpo e mente che si sviluppa a partire da una lettura linguistica dei corpi – umani e più che umani -, la quale individua nella relazionalità e nelle capacità generative dei corpi il principale oggetto che è possibile mettere a valore.
La ricchezza del libro di Nizza si apprezza nella capacità di delineare un territorio critico che ospita gli attuali conflitti, ma anche le possibilità di emancipazione a venire.