Il petrolio è in mezzo a noi, ovunque, «naturalizzato» nelle nostre vite, linfa vitale dell’economia. Ma a che prezzo? Da quanto tempo i colossi petroliferi sanno dei gravi danni che causano al clima? E come si spiega la loro «impunità»?

IL 75% DELLE EMISSIONI DI GAS serra accumulate dal 1998 al 2015 è stato generato da un centinaio di compagnie petrolifere. Il 62% delle emissioni industriali di anidride carbonica e metano, dal 1751 al 2015, è riconducibile alle attività di appena cento carbon majors.
In Tutte le colpe dei petrolieri. Come le grandi compagnie ci hanno portato sull’orlo del collasso climatico (Piemme 2020, 160 p.), Marco Grasso e Stefano Vergine ci conducono nella pancia delle big corporation dell’oro nero, analizzando i meccanismi più intricati di un’industria potentissima, che manovra lo scacchiere mondiale con un oscuro contorsionismo capace di insinuarsi nelle pieghe più scomode della politica.

ILLUMINANTE IL LEGAME tra crisi climatica e finanza. «Nel 2019 la finanza italiana ha causato novanta milioni di tonnellate di CO2, più delle emissioni dell’intera Austria in un anno» si legge in un rapporto pubblicato da Greenpeace e Re:Common. Banche, assicurazioni e fondi di investimento che prestano denaro per progetti mirati a sfruttare le energie fossili sono responsabili della crisi ambientale tanto quanto chi estrae petrolio, gas o carbone, sostengono le due ong. Interessante la parte dedicata all’Eni.

NEL 2019 INTESA SANPAOLO e Unicredit sono in cima alla classifica dei finanziatori dei combustibili fossili. Le due banche sarebbero responsabili di circa l’80% del totale delle emissioni attribuite alla finanza italiana, cioè oltre 75 milioni di tonnellate di CO2 emesse in un anno: l’equivalente di quattro volte il volume di emissioni di tutte le centrali a carbone italiane.

COME RIVELATO NEL 2019 da Climate Liability News, già più di quarant’anni fa le principali compagnie petrolifere statunitensi, e il governo Usa, erano pienamente consapevoli della necessità di ridurre drasticamente le trivellazioni per riuscire a minimizzare gli impatti dell’anidride carbonica rilasciata dalla combustione. Dal ’68 gli avvertimenti sugli effetti dei gas serra hanno intasato le scrivanie delle maggiori multinazionali del petrolio.

SAPEVANO TUTTO. In un documento confidenziale del 1988 (The Greenhouse Effect), Shell ammetteva che i cambiamenti climatici avrebbero potuto innescare migrazioni forzate su larga scala, a causa del fallimento di interi sistemi agricoli e all’aumento di eventi meteorologici estremi nelle regioni più sensibili. In ogni caso, alle prime avvisaglie di una politica climatica mondiale nei primi anni Novanta, nessuna multinazionale ha voluto saperne di cambiare rotta. Ma come hanno potuto tacere e godere di una costante deresponsabilizzazione, convincendoci, grazie al greenwashing, che il petrolio, il gas e il carbone fossero diventati più «puliti»?
L’ong americana Union of Concerned Scientists ha sintetizzato in una sorta di «manuale del negazionista» le cinque mosse che l’industria petrolifera ha utilizzato per attaccare la scienza del clima. La prima è The Fake: il buon negazionista produce pseudoscienza (ExxonMobil, per esempio, avrebbe finanziato ricercatori per pubblicare risultati non scientifici); la seconda The Blitz: attaccare sempre gli scienziati scomodi; poi The Diversion: insinuare il dubbio; The Screen: acquisire credibilità attraverso alleanze e finanziamenti dal mondo accademico (Columbia University e MIT di Boston, scrivono Grasso e Vergine, sui temi energetici sono stati «colonizzati»); e infine Pass the buck: scaricare le responsabilità sulle persone.

CON UNA CAPITALIZZAZIONE di 16mila miliardi di dollari, un fatturato annuo di 3mila miliardi e 10 milioni di occupati, quello dell’oil&gas rimane un settore dove si guadagna moltissimo. Bp, Chevron, ExxonMobil e Shell, per esempio, fra il 1990 e il 2019 hanno accumulato 2mila miliardi di dollari di profitti: quanto il Pil italiano.

POSTO CHE LE COMPAGNIE dovrebbero sottostare al «dovere di compensazione» e pagare per quanto hanno inquinato, la domanda cui sottende il libro è se sia possibile un’economia senza petrolio e gas. Ci ritroveremmo tutti più poveri? No. Le stime dell’Ilo dicono che, mentre le industrie dei combustibili fossili perderanno 6 milioni di posti di lavoro, lo sviluppo della green economy ne creerà 24 milioni di nuovi.