Su una cosa Alberto Caviglia ha sicuramente ragione: il suo Olocaustico sarebbe un bel film. Invece, almeno per il momento, ci si deve contentare del divertente romanzo pubblicato da Giuntina (pp. 304, euro 18). È infatti proprio dove le pagine conservano la vividezza delle sequenze che il libro esprime il suo lato migliore.

TUTTO IL RESTO è, e non è poco, ironia, sarcasmo e un’inaspettata e amara saggezza. David Piperno, protagonista del racconto, è l’agiato rampollo di una famiglia ebraica romana che, in attesa di capire cosa fare da grande, va a studiare cinema a Tel Aviv. Per campare, in attesa dell’occasione che gli consentirà di girare il film che lo renderà famoso, raccoglie le interviste degli ultimi sopravvissuti alla Shoah. Il libro è ambientato nel 2024 e loro sono proprio gli ultimi a tal punto tale che lo Yad Vashem, l’ente nazionale per la Memoria della Shoah di Gerusalemme, constatata la scomparsa di tutti i testimoni, decide di chiudere il progetto e David con i suoi amici e colleghi resta senza lavoro.

Ma lui, giovane uomo dalla fantasia pirotecnica – come il suo autore – inventa un altro sopravvissuto, ne registra la testimonianza e assurge, con una mistificazione che travolge gli inviolabili e dolorosi confini della Shoah, alla popolarità tanto ambita: «Anche se negli ultimi anni – si interroga il protagonista – era stata abolita in molti Stati, esisteva una legge che puniva chi negava l’esistenza della Shoah. Ma cosa era previsto per chi provava ad affermarlo mentendo? Esistevano precedenti? Lo avrebbero denunciato? Si sarebbe portato per sempre dietro la vergogna di quel ridicolo tentativo?».

È ANCHE QUESTO un modo di rispondere alla domanda su cosa accadrà quando gli ultimi testimoni saranno scomparsi. Basterà una testimonianza, inventata, a salvare il lavoro di Davide e compagni, sarà quindi il falso a salvare il mondo dalla sua definitiva perdita di memoria, sono gli interrogativi che percorrono l’intero romanzo coniugando la vicenda di Davide alle questioni della più stingente attualità. A dimostrazione – se ce ne fosse ancora bisogno – che il lavoro sulla memoria è soprattutto e sostanzialmente un’attività del presente.

Alberto Caviglia non è nuovo a rovesciamenti di senso, esordisce infatti alla regia nel 2015 con Pecore in erba: provocatorio falso documentario sulla scomparsa di Leonardo Zuliani, attivista per i diritti civili degli antisemiti, presentato al Festival di Venezia.

Questa volta il romanzo di Caviglia è tessuto nel rincorrersi di invenzioni surreali e questioni fondamentali: nodi che esulano dalla pur fondamentale memoria dello sterminio antiebraico per interrogarsi con umorismo e disincanto sulle questioni del vero e del falso, sulle ambiguità di quella post verità che contraddistingue la nostra epoca innervata di social media. La vicenda di Davide e dei suoi giovani amici racconta con ironia e qualche ingenuità di scrittura la fragilità degli equilibri mondiali, la vulnerabilità della politica, le inquietudini che stanno appena dietro la porta. Il racconto è ambientato in una società israeliana uguale a tutte le altre per il potere che vi hanno i media nel definire l’immaginario collettivo e l’agenda degli eventi ma, grazie ai social, la vicenda si espande al mondo intero.

SOLO IN APPARENZA marginale alla vicenda è la sceneggiatura a cui Piperno sta lavorando – La lucertola mutante – che rappresenta il suo punto di arrivo come regista di fantascienza. Lucertola surreale tanto quanto, appunto, la vicenda che fa incontrare il grande Malach – varano preistorico sopravvissuto nelle profonde salinità del Mar Morto – con la testimonianza dei sopravvissuti a un campo di sterminio. Un gigantesco falso che fa il giro del mondo, che inventa un’altra religione, che ridefinisce la veridicità della Shoah e che procrastina la battaglia finale in cui il mondo precipiterà, quella tra il vero e il falso.
Almeno per il momento.