A Milano per altri motivi approfitto di una mattina e mezzo pomeriggio liberi per andare a scovare la mostra di una fotografa iraniana di cui lessi per caso un trafiletto qualche tempo fa. Mi sono segnata gli orari: apre alle quindici. Pranzo amabilmente con un’amichetta delle vacanze estive che vedo solo di straforo in inverno: lei ha da fare presto e, con lo stomaco pieno di delizie, mi ritrovo da sola a gironzolare nelle vie attorno alla galleria, nell’attesa che passi una mezz’ora. Questa città la frequento da anni ma da poco comincio a orientarmi nella sua struttura circolare di viali e porte di pietra ad arco. Quando alzo gli occhi leggo la placca di marmo all’angolo di un palazzo: via Ripamonti. Qualche altro passo e mi ritrovo sotto il numero tre.

Al citofono c’è ancora scritto il nome sulla targhetta: l’iniziale del nome puntata – M. – e il cognome tronco dell’ultima vocale, venezianizzato – Morandin. La testa mi gira, la casa è vuota, forse nelle librerie c’è rimasto qualche libro… Ricordo l’ultima volta che sono stata qui con Morando in vita: dopo una breve visita mi ero ritrovata spersa sotto il portone, disorientata dal suo stato, confusa sulla direzione da prendere. Stavolta mi sento sola, solamente sola. Mi appoggio a un muro e verso qualche lacrima, come se aprissi giusto un filo il rubinetto del pianto. Dalla parte opposta del semaforo sento uno sguardo, qualcuno mi nota. Faccio dietrofront verso la mostra che sono venuta fino a qui a vedere. Alle mie spalle sento una voce che è quasi un grido, dei passi concitati, mi volto e una anziana dal viso arrossato dal sole, vestita con una tuta e un piumino, mi chiede Come ti chiami? Perché piangi? Bofonchio qualcosa su una persona che abitava qui e che è morta. Come si chiamava? Morando. Era una persona anziana, aggiungo, come a giustificarmi, a giustificarlo. Mi guarda con compassione e io penso che se frequenta questa zona probabilmente lo ha conosciuto, lo ha visto camminare novantunenne fiero ma incerto, lo ha ascoltato balbettare assumendo involontariamente quella sua smorfia buffa, la bocca incastrata nel mento. Vado via. Lo spazio espositivo mi accoglie. Mi introduco nelle immagini come nell’acqua sulfurea di una vasca termale.

Le fotografie raccontano, tutte e otto, soggetti umani collocati nella natura arida dell’isola di Qeshm, territorio iraniano affacciato sul Golfo Persico. Nel centro dell’inquadratura si trova sempre un dettaglio che sfugge al primo sguardo: il riflesso nella tv della coppia che si abbraccia, accanto le loro cose, un frigo una poltrona un ventilatore delle casse un condizionatore un tappeto avvoltolato uno straccio chiuso a nodo al posto della valigia, vestiario probabilmente. Cosa ci fanno in mezzo al nulla? Si lasciano? Piangono un lutto? Appena sfrattati progettano una nuova vita tra crateri e sedimentazioni geologiche? Immagini surreali che acchiappano la fantasia mettendola alle strette: dramma o realtà, Marte o Terra, vita o miraggio? Il cammello morto osservato dalla cima del canyon da uomini di varie età. Il corpo nudo senza vita tra le braccia della donna di nero vestita: un Gesù moribondo, appena staccato dalla croce.

Le membra riverse dell’uomo sofferente mimetizzato nell’ocra del terreno desertico. Stratificazioni di storie, dolori, aspirazioni. La donna elegante come una regina su un tappeto – volante? – parcheggiato nel nulla, si specchia davanti ad una roccia carsica eretta in suo onore, i lunghi capelli neri sparsi su stoffa preziosa cadente sul corpo rilassato su cuscini tubolari: cosa ha lasciato a casa, chi, perché? La palma sradicata tirata a corda da due uomini, forse padre e figlio, verso quale direzione, quale rifugio? Un gruppo di uomini con delle taniche in mano vengono verso l’obiettivo, in primo piano li attende una coperta nera e spessa. Stesa per lungo, che potrebbe ospitare qualsiasi cosa: un cadavere, altre coperte per scaldarsi dal freddo che arriverà di notte, nulla. La mano della donna che copre la vista della figlia-bambina nella curva del sentiero tracciato da pietre tra primordiali montagne di sabbia. Da cosa mi proteggi, mamma? Cos’è che non devo vedere? Come ti chiami? Perché piangi?(Gohar Dashti, Stateless, Officine dell’immagine, via Atto Vannucci 13, Milano)

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