Le nuove recenti stime del Fondo monetario internazionale prevedono una contrazione del Pil mondiale al 4,9% contro il 3% stimato ad aprile.

Solo la Cina può evitare il segno meno, ma con uno striminzito +1%, come cinquant’anni fa.

La capoeconomista del Fmi, Gita Gopinath parla della peggiore recessione dagli anni ’30.

Per l’Eurozona si aspetta una contrazione del 10,2% e per l’Italia una flessione del 12,8%, avvicinandosi alle stime forniteci da Ignazio Visco (-13%) che ad alcuni paiono eccessive.

L’Ufficio parlamentare per il Bilancio è meno pessimista: -9% a fine anno, ma solo se verrà scongiurata una seconda ondata pandemica in autunno. Una scommessa finora poco fondata. Stando alle fonti ufficiali, pur restando contenuti i numeri, i dati dell’epidemia hanno rallentato o smesso la discesa.

Nuovi focolai si accendono da Nord a Sud dello Stivale, per non parlare del resto del mondo. Se il nostro paese piange gli altri di certo non ridono.

La potente Germania si prepara a un -7,8%, gli Usa scontano un calo dell’8% e perfino l’India che ci aveva abituato a continui tassi di crescita, subirà la prima contrazione in oltre 40 anni, pari al 4,5%.

L’impatto sull’occupazione viene giudicato “catastrofico” dallo stesso Fmi che riprende i dati dell’Organizzazione mondiale del lavoro. A farne le spese maggiori saranno i lavoratori scarsamente qualificati e le donne.

E’ comparsa la “generazione Covid”. Per l’Istat sotto i 25 anni il tasso di disoccupazione sale al 23,5%. Un effetto “devastante e sproporzionato” dice l’Ilo. In realtà piove sul bagnato. Da noi i navigator hanno trovato lavoro solo a se stessi, naturalmente precario.

Gli ottimisti della ripresa a “V” si devono ricredere e pensare a come fronteggiare un lungo periodo di stagnazione senza distruzione sociale. Chi mai può farcela da solo? Il dottor “strarigore”, il premer olandese Mark Rutte ha voglia di predicare, per gli altri, ricette “virtuose”. Irrealistiche quanto stupide come il Patto di Stabilità che Dombrovskis vorrebbe restaurare quanto prima.

Quindi la vera partita che si giocherà il prossimo consiglio europeo di metà luglio, ed oltre, va al di là del Mes, coinvolge l’intero pacchetto di misure, recovery fund in primis, la sua entità, il rapporto fra aiuti e debiti, i tempi della restituzione di questi ultimi, l’emissione di titoli di debito comune, la crescita del bilancio europeo, la sua alimentazione con nuove tasse su scala europea. Su queste cose si misurerà la nuova presidenza tedesca. Le parole della Merkel sono forti, quando, citando Kohl, afferma che: ”L’Europa è questione di pace e di guerra”. Vedremo i fatti.

La Gobinath insiste sulla necessità di una lotta efficace all’evasione e di riforme fiscali che puntino ad allargare la base imponibile per attuare una “maggiore progressività” del prelievo. L’esatto contrario delle varie flat tax, ma anche della riduzione del numero degli scaglioni Irpef su cui parrebbe orientarsi la “misteriosa” riforma fiscale annunciata a più riprese dal nostro governo.

Il ruolo dello Stato non può però essere confinato entro il versante redistributivo. Serve un nuovo protagonismo dello Stato nel campo della innovazione e produzione. La ricetta di Carlo Bonomi la conosciamo: tutti gli aiuti vanno alle imprese perché sono esse a creare lavoro e non lo Stato. La cosa è stata smentita più volte nella storia, specie a ridosso di grandi crisi, ma i “predatori” della Confindustria vogliono in questo modo occupare il futuro annunciando un “piano” 2030-2050.

Lo scontro frontale con questa concezione è inevitabile. Inutile cercare di aggirarlo con soluzioni più dolci, come la partecipazione di minoranza dello Stato nelle imprese propugnata da Romano Prodi. Può sembrare paradossale, ma non è solo un problema di proprietà, quanto di scelte strategiche sul cosa, come e per chi produrre. Lo Stato deve riacquistare un ruolo di imprenditore e di innovatore, come dice Mariana Mazzucato, altrimenti resta una stampella del sistema.

Lo si vede bene nella scuola. Persino il citato rapporto del Fmi chiarisce quale arretramento spaventoso può divenire per l’umanità intera da una prolungata perdita di apprendimento. La scuola pubblica è un investimento sociale non la formazione quadri per le imprese. E’ quindi lo Stato in primissima persona che se ne deve occupare, cominciando a regolarizzare l’esercito di insegnanti precari di cui finora si è servito e assumendone nuovi a tempo indeterminato.

La pandemia ha evidenziato l’inutilità sociale della sanità privata. Ma anche qui non si tratta solamente di costruire ospedali pubblici, anzi bisogna uscire da una visione “ospedalocentrica”, per progettare la prevenzione e pensare a presidi sanitari articolati sul territorio.

L’ultimo focolaio epidemico nel mattatoio del Nord Reno Westfalia, il più grande d’Europa, dove ogni giorno ventimila maiali vengono trasformati in prodotti alimentari per il mercato globale, avverte che non c’è bisogno di raggiungere i mercati cinesi di pipistrelli per studiare l’effetto spillover.

Siamo su un crinale terribile, per salvarsi va colta l’occasione per cambiare gli assi strategici della produzione e quindi per creare nuovi spazi per l’occupazione.

Quantomeno va avviata una riflessione collettiva. Non è venuta da Villa Dora Pamphilj, né lo poteva.

Bisogna riacquistare, e il sindacato, la Cgil, può essere una leva, una posizione creativa e alternativa rispetto agli indirizzi della nostra economia e del vivere sociale, ripensare ad una programmazione democratica, costruita nel confronto con gli attori e i movimenti sociali.