Nella sua ultima riflessione su populismo ed empowerment, Stefano Bonaga ha sostenuto che “la lotta può essere efficace solo a partire da un processo di ripoliticizzazione della società”. Ci troviamo in accordo con questa posizione, ma sarebbe ingenuo non riconoscere che il percorso da compiere è ricco di ostacoli, resi particolarmente imponenti dalla fase storica che stiamo vivendo.

Il processo di liquefazione della solida modernità che abbiamo alle spalle rappresenta un ottimo punto di partenza per un’analisi dello zeitgeist populista tanto indagato negli ultimi vent’anni. L’epoca post-moderna nella quale siamo immersi ha visto numerosi cambiamenti nei concetti di cittadinanza, istituzione e rappresentanza, portandoci quasi a dubitare che dietro a queste parole, a questi segni, risiedano ancora dei significati. In mancanza della capacità di dare un nome alle cose tutto diviene inafferrabile e inaccessibile; il pensiero vaga, smarrito e privo di appigli nella sfera del reale.

Uno degli elementi su cui autori e opinionisti concordano, quando si tratta di analizzare la deriva populista, sia essa riferita a singoli movimenti come all’intero impianto democratico, sta nel riconoscimento di una tendenza alla semplificazione dei messaggi. Ma in una società complessa, in cui le possibilità ideali eccedono di gran lunga le possibilità concrete e la velocità si è trasformata da qualità a dimensione vitale, come non arrendersi alla necessità di selezionare dal tutto una parte? Come riconoscere la semplificazione come necessità di sopravvivenza e non come intenzione di distorsione e manipolazione?

La domanda a cui rispondere oggi dunque non sembra essere “come non semplificare” bensì “qual è il modo giusto di semplificare? Come riuscire a trasmettere bene il messaggio?”. Qui la questione del linguaggio, dagli slogan in poi, emerge in tutta la sua forza. Strumento di comprensione del potere, strumento di potere.

Avevano ragione Laclau e Mouffe quando, quarant’anni fa, indicavano tra i fini della sinistra la trasformazione in senso radicale delle istituzioni democratiche perché riflettessero sempre i principi di libertà e uguaglianza. Ciò deve passare necessariamente dalla definizione di significati nuovi, capaci di sfidare la stessa legittimazione dei rapporti di forza. Ecco perché il populismo non rappresenta un pericolo in sé.

Esso costituisce una deriva, una deriva autoritaria, nel momento in cui alla necessaria semplificazione del messaggio si unisce una errata individuazione dei suoi bersagli, quando gli “interessi del popolo” vengono deviati dai suoi rappresentanti in una direzione lontana dai centri di comando, che lascia perciò intatto lo status quo. Le pretese di cambiamento si sgonfiano, i danni si moltiplicano, vecchie e nuove forme di odio si mescolano. E i corpi fragili che tante speranze vi avevano riposto si scoprono ancor più inermi, in barba a tutte le promesse di benessere ormai saltate.

Man mano che esce allo scoperto, questo populismo si rivela così sempre più funzionale al potere un tempo dichiarato nemico. Come evitare pertanto questo imbarbarimento? Politicizzare la società, si dice: benissimo! Siamo d’accordo: di sicuro non bastano il voto e il pagamento delle imposte per realizzare la democrazia. Bisogna riconoscere la nostra potenza, comprendendo dove e come questa società riesce a limitarla. Significa smascherare le contraddizioni del reale, a partire dai luoghi in cui la nostra partecipazione alla sfera pubblica potrebbe e dovrebbe essere maggiormente valorizzata.

Condizione del cambiamento non può che essere allora l’elaborazione di un nuovo consenso, costruito attorno alle parole che servono per riequilibrare la bilancia della giustizia sociale e a riprendere il controllo sugli ambienti di vita. Si badi bene: attorno alle parole. Solo attraverso il dialogo, infatti, si abbattono le barriere che separano inclusi ed esclusi; laddove è la critica della complessità, e non il suo rifiuto, a portare al suo superamento in senso progressivo. E progressista.

In conclusione, ecco che “come riuscire a trasmettere bene il messaggio?” si congiunge inevitabilmente a “come sviluppare potenti strumenti di critica?”. La proposta che per ora ci sentiamo di avanzare è: creando e investendo sempre di più in luoghi di confronto sulla complessità, in cui accrescere le nostre possibilità di definizione e di intervento sul reale.

Due esempi: è iniziata da pochi giorni la campagna di Politici per Caso per raccogliere le firme necessarie a introdurre le Assemblee dei Cittadini nell’ordinamento italiano; il 10 e 11 aprile in Emilia-Romagna e il 16-17 aprile in Calabria prenderà avvio AssembraMenti, esperimento di democrazia attiva che vedrà la partecipazione di 250 persone per regione, riunite per imparare, confrontarsi ed elaborare proposte su temi il cui orizzonte valica di gran lunga l’orizzonte temporale di un singolo mandato elettorale: clima, lavoro, inclusione sociale.

Lungi dal rappresentare una rottura radicale con l’esistente, questi esperimenti possono tuttavia riaccendere il dibattito sull’importanza dell’informazione e della discussione tra pari, due dei principali elementi su cui basare il tasso di salute della democrazia. Si tratta di piccoli passi, è vero. Forse solo accessori. Ma estesi al nostro quotidiano, diventano possibili modelli di impegno civico e civile. Insomma, una bella forma di empowerment e, chissà, di isocrazia.

Gli autori sono rispettivamente attivista e co-fondatore di 6000 sardine