Una motocicletta sfreccia su un’autostrada in Cisgiordania, verso la città di Beit Jala: alla guida Rami Elhanan, sessantasette anni, figlio di un sopravvissuto ad Auschwitz, gerosolimitano dalla nascita. È un graphic designer, ha una moglie e quattro figli, segue un inossidabile principio di realtà, continuamente oscillando tra cadute nel banale e pragmatismo. Estraneo a ogni ideale, non ha opinioni politiche e realizza messaggi di propaganda per chi glieli richiede, siano falchi o colombe, fautori del più aggressivo nazionalismo o pacifisti, sindacalisti, generali dell’esercito o kibbutznik. La traiettoria rettilinea dei suoi giorni scarta bruscamente quando la figlia quattordicenne Smadar rimane vittima di un attentato terroristico nel centro formicolante di Ben Yehuda Street, a Gerusalemme Ovest. Oltre a lei, saltano in aria alcune amiche e i due palestinesi suicidi.

Lungo il Muro
Nel villaggio palestinese di Anata, nella Cisgiordania sotto occupazione israeliana, circondato e in certi punti attraversato dalla Barriera di separazione, anche nota come Muro della discordia, abita Bassam Aramin. Ha una moglie e sei figli, un passato da militante di Fatah e guerrigliero dell’intifada, alle spalle lunghi anni di carcere duro nella prigione israeliana di Beersheba. Anche la sua vita svolta improvvisamente quando la figlia di dieci anni Abir è uccisa da un poliziotto israeliano di frontiera che le spara addosso una pallottola di gomma mentre esce da scuola. Le vicende di Rami e Bassam sono vicine, quasi addossate nella geografia, sideralmente distanti nelle implicazioni politiche, accomunate da un unico dolore. A partire da questo grumo irrisolto di sofferenza, i due stringono un legame, entrano in Parents’ Circle, associazione di genitori ebrei e palestinesi che hanno perduto i figli a causa del conflitto. Saranno tra i fondatori dell’organizzazione israelo-palestinese dei Combattenti per la pace, impegnati in un progetto di convivenza pacifica che rifiuta la violenza, prevedendo che Israele abbandoni i Territori occupati, che abbia termine l’espansione delle colonie, che venga fondato uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est.

Forma ibrida
Intorno a queste storie, reali e dense di attualità, si svolge Apeirogon di Colum McCann, uscito di recente da Feltrinelli nell’ottima traduzione di Marinella Magrì (pp. 511, € 22,00). Romanzo ibrido a detta dello stesso autore, dove l’invenzione contamina la realtà e viceversa, ha una forma mista, tra narrazione, saggio e album: Apeirogon è, né più né meno, quanto il titolo dichiara e sottende, ovvero una forma geometrica ideale, un poligono con infiniti lati. Il nome porta in sé l’eterna tensione e l’illimitatezza di ciò che è senza numero e per sua stessa struttura inconcludibile. Rincorrendo questa figura astratta ai limiti della linearità euclidea, quasi una chimera more geometrico demonstrata, l’autore irlandese svolge in cinquecento pagine – nell’ampiezza tipica delle opere che si arrotondano come un universo in sé conchiuso – un racconto scansionato in sezioni numerate, prima ad aumentare e poi a diminuire, frazionandosi in schegge di narrazione brevi e brevissime e impedendo, di proposito, la distensione dello sguardo.

In questo andamento sussultorio, singhiozzante, a tratti rapsodico, scandito in rapide prese di respiro che velocizzano la lettura fino a una sorta di apnea del pensiero, McCann fa cadere le linee tematiche della storia, dove il piano della vita di Rami e di Bassam interseca, geometricamente e ai limiti del figurabile, altre costanti, veri e propri leitmotiv che si mostrano al lettore a ritmo sostenuto, quasi fossero ossessioni: il volo degli uccelli, la storia e la letteratura medievale del Medio Oriente, la sua geografia tra il reale e il favoloso, le preesistenze europee con il basso continuo dello sterminio ebraico, la fabbricazione di proiettili, le distruzioni atomiche e nucleari, l’ultimo pranzo di François Mitterrand, la storia di un missionario pazzo, l’occhio e la sua complessa anatomia, altre suggestioni borgesiane a rendere il tracciato ancora più puntiforme e nebulizzato.

Apeirogon è un’ordinata fantasmagoria, più vera del vero, insieme articolata e adamantina, costruita su numeri che prima aumentano fino a culminare in una sorta di «punto zero narrativo» – coincidente con le ampie interviste in presa diretta ai due protagonisti, autentica chiave di volta della storia – per poi decrescere restituendo un totale aritmetico di milleuno, a richiamare scopertamente la raccolta orientale. Una finissima cucitura di associazioni, iterazioni, parallelismi, diramazioni, variazioni su cui si innesta, secondo i modi consolidati del montaggio letterario, altro materiale testuale: slogan, voci Wikipedia, testimonianze oculari, dettagli eccentrici, quasi erratici, scritture d’archivio, stralci di trattati, immagini, tracciati acustici, statistiche, spazi vuoti.

Improvvisi accidenti
Il tutto – qui la differenza rispetto al disordine costitutivo di molti romanzi postmoderni – è sottoposto a un nitido principio d’ordine, non digressivo né divagante, bensì sezionante e geometrico. Un andamento che interrompe le linee in fieri, capace di articolarsi e moltiplicarsi senza impazzire. Apeirogon – è stato detto da più parti – è un libro «caleidoscopico»; ma questo non basta a descriverne la natura. I continui cambi di prospettiva, l’erosione della cronologia, i salti temporali, in avanti o all’indietro, che attraversano la narrazione a riquadri numerati sono tanto più netti in quanto contrastano con le leggi – antiche, asimmetriche per definizione e più interne rispetto alla limpida struttura formale – del caos e della casualità. Gli accidenti irrompono all’improvviso nelle vite dei protagonisti, tracciando la linea comune del dolore privato e speculare dei due padri, che insieme all’amicizia che ne deriva fornisce il collante per questo epos in frantumi, a mostrarne l’elemento nucleare. A disegnare cioè – con le parole, più volte citate nel libro, di una lettera di Freud a Einstein – «una comunità di sentimento e una mitologia delle pulsioni».