C’è un passaggio, nella seconda parte di Il ritmo di Harlem, nuovo, felicissimo romanzo di Colson Whitehead (traduzione impeccabile di Silvia Pareschi, Mondadori, pp. 356, euro 20,00) che dice molto non solo sul libro, ma anche, indirettamente, sulla poetica e sulla ricerca letteraria che ha scandito la carriera dell’autore. Il protagonista, Ray Carney, proprietario di un negozio nel cuore di Harlem che vende mobili a basso prezzo e non sempre di provenienza lecita, rievoca il corso di contabilità finanziaria che aveva seguito all’università e che «si teneva in un’aula squallida nel seminterrato del dipartimento di Economia». Durante le lezioni il professor Simonov, docente emigrato in America da un imprecisato Paese dell’est europeo, raccomandava di scegliere un momento della giornata per tenere la contabilità, e di non cambiarlo mai; e faceva l’esempio di suo padre, «un commerciante di stoffe del vecchio continente (Romania? Ungheria?)», che aveva deciso di privilegiare, per quell’attività, «la prateria notturna del dorvay».

Cosa sia il «dorvay» viene spiegato subito dopo: deriva da una storpiatura del francese dorveille, quell’intervallo notturno tra due distinte fasi del sonno nel quale «ci si rimetteva in pari con i conti, di qualunque tipo fossero – leggere, pregare, fare l’amore, faccende urgenti o svaghi agognati. Era una tregua dal mondo normale e dalle sue pretese, una nicchia di iniziativa privata scavata nella montagna delle ore perse».

Questa la chiave di entrata
Il concetto di dorvay è, in primo luogo, la chiave di volta per comprendere il romanzo e il suo disegno narrativo. Nell’ottica di Carney, «il dorvay era il paradiso dei delinquenti, quando il mondo onesto dormiva e i disonesti si mettevano all’opera. Un’arena per colpi e rapine, furti ed effrazioni, quando il truffatore prepara l’esca e il malversatore trucca i conti. Gli interstizi: fra notte e giorno, riposo e dovere, losco e perbene. Quando prendi in mano un piede di porco, sai che l’interstizio è dove cominciano i casini».

Questi interstizi sono il terreno di elezione attraverso il quale, ricorrendo a una robusta struttura in tre parti – ambientate rispettivamente nel 1959, nel 1961 e nel 1964 – Whitehead racconta l’ascesa di un piccolo imprenditore che non esita a venire a patti con il crimine, e insieme le trasformazioni all’interno della comunità nera di Manhattan. Se nella prima parte del romanzo Carney viene coinvolto dall’inaffidabile cugino Freddy nella ricettazione dei proventi di una clamorosa rapina, nella seconda si vendica illegalmente del banchiere Duke, che non ha mantenuto la promessa di farlo ammettere, in cambio di una mazzetta, al prestigioso Club Dumas, dove si riunisce la crema della comunità afroamericana; e nella terza si destreggia, non senza fatica, all’interno dei riots che oppongono afroamericani e polizia bianca.

Nella lettura di Whitehead, l’interstizio, il costante moto oscillatorio tra orgoglio razziale, ambizione, deriva criminale, è la vera chiave di volta per comprendere le trasformazioni di Harlem da epicentro di un rinascimento culturale e letterario a culla della nuova borghesia nera, ma anche a luogo di degrado, inferno tossico, ricettacolo di piccoli e grandi criminali, truffatori, magnaccia, evasori del fisco. Un contesto nel quale la rivolta razziale e il crimine non sono due opzioni distanti, ma complementari, come capisce perfettamente Pepper, braccio armato di Carney, picchiatore e reduce di guerra: personaggio formidabile, degno dei capolavori dell’hard-boiled americano per il disincantato cinismo con il quale guarda il mondo cambiare intorno a sé. Queste le sue riflessioni mentre è impegnato a sorvegliare, per conto di Carney, il piccolo gangster Biz Dixon: «Dal primo all’ultimo, i suoi compari provenivano tutti dalla cricca che si incontrava uptown di quei tempi, ragazzi maligni e stupidi. Rovinati, in qualche modo. Al Maharaja proiettavano certi film che avevano per protagonisti ragazzi bianchi arrabbiati, piccoli delinquenti con le auto truccate. Non c’erano film sui loro simili dalla pelle scura che vivevano a Harlem, eppure esistevano, con il loro odio viscerale per come funzionavano le cose. Se erano brave persone, manifestavano e protestavano e cercavano di cambiare quel che odiavano del sistema. Se erano persone cattive, andavano a lavorare per quelli come Dixon».

Ma oltre a offrire una chiave di lettura efficace del Ritmo di Harlem, il concetto di dorvay funziona da commento ideale all’intera produzione letteraria di Whitehead, a sua volta interstiziale per la capacità di muoversi con sistematica levità tra la sperimentazione letteraria postmoderna e il grande respiro del romanzo classico; tra il mainstream puro e il genere nelle sue varie incarnazioni novecentesche; tra l’impegno politico e civile e il divertissement.

Un moto oscillatorio ben presente fin dalle prime due opere, L’intuizionista e John Henry Festival, omaggi, rispettivamente, alla fantascienza speculativa e alla tradizione popolare afroamericana, e ribadito nei romanzi successivi – Apex nasconde il dolore, satira di un mondo dominato dal marketing che molto deve al miglior Foster Wallace; Sag Harbor, esempio quasi classico di romanzo di formazione; Zona Uno, zombie novel pandemica e riflessione filosofica sulla grande crisi del 2008. Fino ad arrivare ai due Pulitzer consecutivi, a loro volta esempi di mescidazione di generi letterari e linguaggi: il fantastico e il realismo brutale della slave narrative nella Ferrovia sotterranea; l’horror e di nuovo il Bildungsroman, nei Ragazzi della Nickel.

Prestiti dall’hard boiled
Il ritmo di Harlem è il culmine di questo talento ibrido, a partire dai ripetuti omaggi alla tradizione letteraria afroamericana. Dai maestri della Harlem Renaissance – primo fra tutti, Claude McKay – a W.E.B. DuBois, a Ralph Ellison, i punti di riferimento «alti» sono spesso esplicitati; ma ancor più forte, velata proprio perché diffusa, è la presenza del vero maestro dell’hard-boiled nero: Chester Himes, con i suoi romanzi del «ciclo di Harlem» e con la sua galleria di piccoli gangster, poliziotti disincantati e spesso corrotti, gente perbene tentata dal crimine proprio come Raymond Carney.

Whitehead abbandona la tensione civile e politica che animava le migliori pagine dei suoi due romanzi precedenti – e che probabilmente spiega il loro successo, il riconoscimento da parte della società letteraria negli anni di Trump e il doppio Pulitzer incassato – e si lascia trasportare dalla storia, dalla descrizione d’ambiente – impeccabile – e soprattutto dalla forza dei personaggi.

Che si tratti di Carney, la cui lotta per trovare un posto nella Harlem borghese si traduce in lunghe passeggiate lungo la Riverside Drive, a caccia della casa dei suoi sogni; del cugino Freddy, per il quale vivere di espedienti è una sorta di seconda natura; di Pepper o di Miami Joe, criminali professionisti, ma anche di qualunque personaggio minore, l’estro creativo di Whitehead raggiunge apici che hanno indotto la critica a scomodare Dickens.