Non inganni il fatto che la mozione del Pd sia piombata in aula all’improvviso e buon’ultima. Tutto si può pensare dell’affondo di Renzi contro Ignazio Visco, tranne che si tratti di una mossa estemporanea. Di uno “fuori come un balcone” per dirla alla Bersani. In fondo, e qualche buon giornalista non ha mancato di rilevarlo, Renzi aveva già detto esplicitamente un mese fa, intervistato da una radio esperta di cose economiche, che si trattava di fare una scelta «all’altezza del compito della Banca d’Italia». Più o meno le stesse parole usate nel testo della mozione parlamentare del Pd, seppure con la limatura governativa. Siamo quindi di fronte ad un nuovo tassello di un mosaico con il quale l’uomo di Rignano cerca di ricostruire la sua immagine e la sua credibilità politiche seriamente compromesse dalla sventola del 4 dicembre. E da qualche complicazione con la Magistratura da parte di ministre, ministri e famigliari. La trama non è banale. Vediamone i vari passaggi.

Il Pd, all’indomani del crac di Banca Etruria, per levarsi di dosso ogni sospetto, aveva chiesto l’istituzione di una Commissione di inchiesta parlamentare, dotata dei poteri della Magistratura. Poi l’ha tenuta a lungo in surplace. Infine ne ha permesso l’insediamento a presidenza Casini, in limine mortis della legislatura. I suoi compiti non sono solo circoscritti alla insufficiente vigilanza della Banca d’Italia.

Ed è già discutibile che questo compito sia ad essa affidato (chi controlla i controllori?). I suoi compiti riguardano anche gli atti e le omissioni del governo, del ministero dell’Economia, del parlamento, della Commissione europea e della Vigilanza unica. A fronte di questo Renzi scaglia la sua freccia contro Bankitalia, come sappiamo dotata di autonomia in virtù del famoso “divorzio” del 1981. Non sarebbero quindi interessi privati in atti d’ufficio ad avere provocato il disastro, ma la mancata azione degli organi preposti a vigilare che fanno capo a Visco. Quindi quest’ultimo non può essere confermato.

Non sta al Pd indicare un nome. Questa è competenza che coinvolge il presidente del consiglio e lo stesso Capo dello Stato. L’intento di mettere in difficoltà le figure e le istituzioni che stavano guadagnando fiducia – come al solito i sondaggi giocano la loro parte – a scapito della stella renziana assai offuscata, è fin troppo evidente.

Prima Renzi getta tra le gambe di Gentiloni una questione di fiducia fin troppo di dubbia costituzionalità sulla legge elettorale. Il Colle più che approvare, tollera, avendo da tempo insistito che comunque una legge elettorale doveva pur essere fatta – non essendo sufficiente neppure un robusto drafting sul Consultellum per eliminare le troppe differenze tra camera e senato – e potendo scaricare sulla presidenza della camera la responsabilità di ammetterla. Cosa che purtroppo la Boldrini ha fatto, fondandosi su precedenti o inesistenti o male interpretati. Poi sferra l’attacco sul vertice di Bankitalia, fin lì tenuto coperto, ma per tempo preparato.

Ma il quadro non sarebbe completo se non facessimo un passo indietro e non ci trasferissimo nella sala di palazzo Koch dove, il 31 maggio scorso, il governatore Visco tiene le annuali Considerazioni finali. In quell’occasione il Governatore individua quali «problemi principali del paese» la crescita del debito pubblico ed i crediti deteriorati delle banche. La questione dell’occupazione, malgrado il dramma giovanile, passa in terza linea. Un promo della manovra di bilancio licenziata in queste ore. «Una manovra immobile», ha titolato un autorevole quotidiano, benché filogovernativo.

Di fronte ad una situazione che precipita sul fronte occupazionale, su quello dei redditi popolari e delle pensioni, stare fermi non è meno irresponsabile che muoversi nella direzione sbagliata. Né la conferma degli incentivi alle imprese sono una novità e tantomeno un toccasana.

Ma la novità di quella Assemblea fu la presenza inusuale del presidente della Bce, Mario Draghi. Quella sortita aveva il sapore di un endorsement a favore della riconferma di Ignazio Visco. Nello stesso tempo sottolineava che l’Italia restava per Bruxelles una sorta di sorvegliato speciale. Ma questa stretta unità d’intenti e di sentimenti fra vertici di Bankitalia e della Bce, non poteva andare a genio a un Renzi che si era vantato di sapere battere i pugni sui tavoli europei per ampliare i margini di flessibilità che lo stesso ministro Padoan considerava un sentiero stretto, anzi strettissimo.

La scadenza del mandato di Visco ha offerto così a Renzi l’occasione di prendere strumentalmente le distanze dalla massima autorità bancaria italiana e in parte anche da quella europea, contemporaneamente frenando la crescita di consensi attorno al presidente del consiglio Gentiloni e deviando l’attenzione dalle connivenze del suo passato governo con la famiglia allargata dei bancarottieri.

Un’occasione ghiotta per chi si appresta a girare l’Italia in tour elettorale. Sperando di conquistare voti stimolando l’avversione per i banchieri e gli immigrati. L’abbinata non è nuova, anzi è un classico del populismo dall’alto – il passato che non passa mai –, ma purtroppo spesso paga.