Un colpo al cerchio e uno alla botte: potrebbe essere la strategia statunitense dopo la storica implementazione dell’accordo con l’Iran, una mano tesa a Teheran e l’altra a coccolare gli alleati preoccupati, Arabia Saudita e Israele. Così si spiegherebbe la parziale marcia indietro della Casa Bianca che prima toglie le sanzioni e poi ne reintroduce qualcuna.

Sabato sera, dopo un giorno di attesa, era giunto l’annuncio: sospese le sanzioni contro Teheran che – ha certificato l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – ha rispettato gli obblighi previsti dall’accordo di luglio. Subito è esplosa la gioia nel paese, libero da un embargo lungo quasi 10 anni.

Poche ore dopo, la doccia fredda: Washington ha introdotto altre sanzioni, seppur minori, contro Teheran a causa del suo programma missilistico. L’annuncio arrivava mentre il Ministero del Petrolio iraniano ordinava di incrementare la produzione di greggio di 500mila barili al giorno, per far rientrare il paese nel mercato energetico. Ad oggi la produzione giornaliera è pari a 2.8 milioni di barili, di cui solo uno destinato all’esportazione.

Vista la consistenza delle riserve, tra i più preoccupati delle nuove fortune iraniane ci sono ovviamente i monarchi sauditi. Mai Riyad ha nascosto la rabbia per l’accordo voluto dall’alleato Usa e che mette in serio pericolo l’autorità economica e politica dei Saud.

Ed ecco la necessità di dare un colpo anche alla botte, quella del Golfo: resteranno sanzioni in capo a 11 società e individui, di stanza negli Emirati Arabi e in Cina, che hanno fornito all’Iran attrezzature e componenti per il programma balistico. Perché le nuove sanzioni non riguardano il nucleare, spauracchio internazionale, ma i missili iraniani: «Il programma missilistico iraniano – ha detto il sottosegretario all’intelligence finanziaria Usa Szubin – è una minaccia significativa alla sicurezza globale e regionale e continuerà ad essere soggetto a sanzioni internazionali».

Immediata è rimbombata la reazione di Teheran: le sanzioni «non hanno legittimità legale o morale», ha detto il Ministero degli Esteri, perché «quei missili non sono stati costruiti per portare armi nucleari». Ma potrebbero esserne provvisti, aveva detto l’Onu ad ottobre, dopo un test compiuto dalla Repubblica Islamica.

Probabilmente sabato a Vienna il ministro degli Esteri iraniano Zarif aveva avuto dal segretario di Stato Usa Kerry un’anticipazione in merito. È possibile che i due – che si sono incontrati prima della conferenza stampa finale – abbiano discusso la questione, addolcendola con lo scambio di prigionieri e giustificandola con la necessità Usa di non tirare troppo la corda saudita. Dopotutto, accanto all’implementazione dell’accordo, è stata anche risolta una controversia lunga quattro decenni: gli Usa restituiranno all’Iran 1.7 miliardi di dollari (400 milioni di fondi congelati e 1.3 miliardi di interessi) con cui erano state acquistate armi dagli Usa prima della rivoluzione khomenista, mai ricevute dall’Iran.

Washington non intende mettere in pericolo un accordo storico, su cui Obama fonda la sua eredità in politica estera. Mantenere alcune sanzioni aiuta il presidente uscente a schivare i colpi dei repubblicani che da mesi attaccano l’accordo e minacciano di stracciarlo una volta alla Casa Bianca. Un colpo al cerchio e uno alla botte, che non danneggerà troppo Teheran ma potrebbe salvare la faccia Usa agli occhi degli alleati mediorientali.

La faccia la deve salvare anche l’Iran: ieri il presidente Rowhani ha promesso una reazione e annunciato che il programma missilistico sarà accelerato. Intanto faceva sapere che già 150 compagnie di 50 paesi hanno preso contatti con l’Iran per futuri business. Bruxelles, da parte sua, pianifica di incrementare il volume d’affari con Teheran, dagli attuali 7.6 miliardi di dollari ai 28 miliardi del periodo precedente alle sanzioni.