Intervistato negli anni Ottanta da Leopoldo Elia e Pietro Scoppola, Giuseppe Dossetti raccontava come la lettura della «Civiltà cattolica» durante gli anni del regime fascista fosse stata determinante per la sua formazione democratica. Nella pubblicistica aveva trovato la conferma «della responsabilità dei cattolici e quindi anche del papa» nell’avvento del fascismo, ma soprattutto vi aveva rilevato quel gap politico-religioso che identificherà come una delle piaghe del cattolicesimo della penisola ancora dopo la conclusione della guerra. Nel 2005 Scoppola spiegava così il problema a Giuseppe Tognon: «il guaio dell’Italia è stato quello di non aver avuto per tempo quella riforma religiosa e etica proposta nell’Ottocento da un religioso come Antonio Rosmini e nel Novecento da un laico come Pietro Gobetti». Autobiografia della nazione, nella celebre definizione dell’intellettuale azionista, il fascismo è stato dunque anche l’autobiografia della chiesa?

Aiutano a capirne di più due recenti studi a firma di Lucia Ceci (L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza) e Alberto Guasco (Cattolici e fascisti. La Santa Sede e la politica italiana all’aba del regime (1919-1925), Il Mulino). Contravvenendo alle periodizzazioni classiche, la ricostruzione di Ceci non inizia dal 1922, ma con l’inquadramento dell’anticlericalismo di Mussolini alla fine del lungo Ottocento. Questa scelta, scrive la studiosa, «risponde al bisogno di dar conto dei mutamenti che investono la società italiana e, al suo interno, il cattolicesimo entro un continuum storico, ridimensionando l’”eccezionalismo” del Ventennio». In tale prospettiva, che valorizza il ruolo cruciale giocato dalla Grande Guerra, l’incontro della chiesa con il fascismo rappresenta il completamento del processo di nazionalizzazione dei cattolici per il quale la Santa Sede aveva iniziato a operare già durante l’età giolittiana con il superamento del Non expedit nel nome della difesa dal «pericolo rosso». Il paradosso è che sarà proprio un «rivoluzionario» a completare il ralliement.

Un repentino avvicinamento

La svolta filo-cattolica del movimento fascista si situa nei primi anni Venti quando Mussolini comprende la necessità di ricercare il favore della gerarchia ecclesisstica per prendere il posto del Partito popolare come baluardo dell’ordine costituito. La concezione religiosa del capo del fascismo è quella dell’instrumentum regni in evidente convergenza con le correnti dell’Action française. Nel 1926 Pio XI condannerà il gruppo per l’equivoca miscela di nazionalismo esasperato e cattolicesimo intransigente; con Mussolini, invece, siglerà un’intesa destinata a durare vent’anni. A cosa si debba questo doppio registro Guasco cerca di spiegarlo investigandone le origini con il supporto delle fonti vaticane. In primo luogo, si evidenzia come la marcia su Roma e l’ascesa al governo abbia modificato il giudizio verso il movimento di San Sepolcro, in cui la chiesa aveva visto il prodotto della laicizzazione e della radicalizzazione del dopoguerra. Alla base del crescente favore nei confronti di Mussolini si trovava una montante insofferenza verso l’aconfessionalismo del partito di Sturzo e per la tendenza di alcune sue correnti verso sinistra. La principale novità dello studio consiste nel tracciare con precisione le oscillanti reazioni ecclesiastiche alle violenze e alle lusinghe di Mussolini: le lamentele per lo squadrismo, che non risparmiava il clero e le organizzazione cattoliche, il distinguo tra la violenza rossa e la «risposta» dei neri, l’apprezzamento per i primi provvedimenti filo-ecclesiastici (crocifisso nelle scuole, lotta alla massoneria, riconoscimento delle feste religiose, donazione della biblioteca chigiana, ecc).

La caratteristica di questa fase consiste nell’attesa per gli sviluppi di una situazione politica che non si è ancora stabilizzata, ma verso la quale la chiesa nutre una fiducia crescente. Viene mantenuta l’opzione popolare (con il siluramento di Sturzo sostituito da De Gasperi), ma i ripetuti attacchi alle sedi del partito, l’omicidio di don Minzoni e il rapimento di Matteotti non modificano una linea sempre più filo-governativa, anzi convincono la Santa Sede che il fascismo sia l’unica garanzia contro il caos e le nefaste ipotesi di un accordo dei popolari con i socialisti.

Quando nel gennaio 1925 Mussolini si assume la responsabilità dell’omicidio la chiesa è dunque ormai pronta per il passaggio definitivo alla dittatura.
Come sottolinea Ceci (sulla scorta degli studi di Giovanni Miccoli e Daniele Menozzi), l’enciclica Quas primas è il manifesto del pontificato di papa Ratti e, nello stesso tempo, la sintesi di una tradizione di opposizione alla modernità che risale ai pontificati di Pio IX e Leone XIII. Nel testo veniva celebrata la regalità di Cristo intesa come affermazione del ruolo di guida alternativa alla società moderna. La chiesa le opponeva il mito del ritorno alla cristianità: in questa chiave devono essere letti gli sforzi del magistero negli anni Trenta per sfruttare quei privilegi concessi anche dal Concordato del ’29 al fine di riportare la società italiana nelle braccia della chiesa. Si arriva così al cuore della questione: il sogno di utilizzare il trono per uniformare la giurisprudenza e il costume ai dettami religiosi, per esempio sulla famiglia (non mancavano le intese con la morale fascista) e soprattutto sull’educazione.

La riforma Gentile aveva stabilito il ritorno dell’insegnamento della religione nelle scuole, ma sarà proprio sul punto della formazione delle nuove generazioni che si consumerà tra il 1931 e il 1938 lo scontro tra l’«Azione cattolica» e l’organizzazione del regime. Il secondo, assai più noto e più tragico, riguarderà l’emanazione delle leggi razziali, rivelatrici per la chiesa di una deriva pagana e nazionalsocialista non più tollerabile.

Retoriche convergenti

Come avevano intuito osservatori attenti come Sturzo e Maritain, in campo non c’era solo il temuto avvicinamento del fascismo alla politica hitleriana o la concorrenza nella gestione delle pratiche sociali, ma la battaglia tra due diverse pretese totalitarie, una battaglia nella quale le due retoriche, quella fascista che esalta la religione come elemento funzionalmente subordinato alla costruzione dell’identità nazionale e quella cattolica che vuole nel Duce l’uomo inviato dalla Provvidenza, si confondono in un gioco di reciproco sfruttamento, contaminazione e concorrenza, per esempio in occasione delle guerre-crociate per l’Etiopia (peraltro sgradita al pontefice) o contro la repubblica spagnola.

Il merito della sintesi operata da Ceci è quello di restituire la lunga durata di tale rapporto dal primo Novecento allo scontro e al tentativo di rottura di Pio XI negli ultimi due anni del pontificato fino all’8 settembre e agli strascichi durante la Repubblica sociale, quando ormai la chiesa si era già orientata verso altre opzioni politiche, pur auspicando per il dopoguerra il permanere di un governo forte in funzione anticomunista. In una prospettiva cronologica di ampio respiro che tenga conto delle premesse Ottocentesche e con un sguardo al secondo dopoguerra risalta quello che Dossetti identificherà come il gap teologico-politico del cattolicesimo contemporaneo: la convinzione che nel compromesso costantiniano si potesse realizzare un interesse superiore.