Anche in Italia si parla spesso di ‘decolonizzazione’ dei classici: un dibattito non limitato alle aule universitarie, ma già da tempo trapiantato nella sfera pubblica e culturale. Decolonizing Classics, si sente dire, è un fenomeno statunitense, nato in seno a un contesto postcoloniale fortemente razzializzato e legato indissolubilmente alla Cancel Culture e alla retorica del Politically Correct: come potrebbe traslarsi in un paese come l’Italia, la cui unificazione avvenne proprio negli anni in cui la schiavitù veniva abolita negli Stati Uniti?

A fronte della sacrosanta rivendicazione dell’eccezionalità del contesto italiano, è sorprendente sentir tanto discutere di ‘decolonizzazione’ dei classici, quanto poco invece del rapporto tra classici e colonialismo italiano. Come se la retorica degli italiani ‘brava gente’, quell’illusione nazionale di far parte di un paese che in fondo non conobbe il colonialismo nella sua intera brutalità, o lo conobbe per un breve periodo, si fosse infiltrata nel discorso sul rapporto tra colonialismo e studio dell’antichità greco-romana. Atteggiamenti difensivi, che spesso offuscano le richieste etiche, storiche e scientifiche dei movimenti di ‘decolonizzazione’, finiscono per ostacolare un dialogo costruttivo su come il tema si possa tradurre nel contesto italiano.

Troppo spesso chi obietta che sia il presente razzializzato della società statunitense a spingere classicisti quali Dan-El Padilla Peralta (università di Princeton) a ripensare il modo in cui studiamo e insegniamo i classici tende a chiudere un occhio sull’eredità coloniale italiana. Perché l’Italia il colonialismo ce l’ha avuto eccome, nonostante l’omertà diffusa, specialmente nelle nostre scuole, sulle violenze perpetrate dal paese non solo negli anni del Fascismo, ma anche in quelli del cosiddetto ‘stato liberale’. Certo, il nostro colonialismo è stato diverso da quello di altri stati europei, e anche il rapporto del nostro progetto coloniale con l’antichità classica è per molti versi eccezionale: da subito evocativo di una nostalgia ideologica per le antiche glorie dell’Impero Romano in quell’Africa che sia l’Italia liberale sia quella fascista consideravano storicamente ‘nostra’, e sulla cui eredità il paese appena formato faceva leva nel tentativo di assurgere al livello delle potenze coloniali europee. E il lascito degli aspetti classicheggianti del colonialismo italiano continua a sopravvivere sia nelle risposte italiane a problemi razziali e post-coloniali, sia nel tessuto architettonico e infrastrutturale delle ex-colonie.

È a partire da tali considerazioni che ha preso forma Classici e Colonialismo Italiano, una conferenza/evento tenutasi al Museo delle Civiltà di Roma tra il 22 e il 24 giugno 2023. Il progetto è nato da una collaborazione tra due classicisti strutturati nel Regno Unito (io, professoressa di latino a Warwick, e il mio collega Sam Agbamu, professore di classici a Reading) e due antropologhe, Gaia Delpino e Rosa Anna Di Lella, che gestiscono lo studio e la catalogazione delle collezioni dell’ex Museo Coloniale, confluite nel patrimonio del Museo delle Civiltà.
La conferenza ha incluso ventitré relazioni e la partecipazione di oltre trenta studiosi e studiose provenienti da diversi paesi, incluse le ex-colonie italiane, e varie discipline umanistiche. La presentazione delle relazioni è stata ogni giorno abbinata ad attività organizzate dal Museo: una performance dell’artista griot Bocar Niang organizzata nell’installazione (vincitrice del Leone D’Oro d’Architettura) Ente di decolonizzazione – Borgo Rizza dello studio italo-palestinese Decolonizing Architecture Art Research (DAAR); laboratori di studio e discussione sulle collezioni provenienti dall’ex Museo Coloniale; visite guidate alla mostra Museo delle Opacità, dove oggetti delle collezioni dialogano con opere e installazioni di artisti e artiste contemporanee.

Gaia e Rosa Anna già da tempo organizzavano eventi e incontri sulla ‘decolonizzazione’ delle collezioni del museo, dove ‘decolonizzare’ significa innanzitutto comprendere a fondo il rapporto dell’Italia con il proprio passato coloniale, e le varie e violente modalità in cui questo passato si riafferma nella società italiana odierna. L’idea di un evento sul rapporto tra classici e colonialismo proponeva dunque dall’inizio un’occasione non solo di ricerca storica, ma di dialogo su come l’esperienza italiana si rifletta nel modo in cui insegniamo, studiamo e viviamo l’antichità greco-romana, dentro e fuori l’accademia.

Il convegno è stato dunque un incontro di riflessione sulle amnesie, presenti tanto nella società italiana quanto nei dipartimenti di studi classici e più in generale umanistici, sulla storia e le conseguenze del colonialismo italiano. Tra i temi trattati, si è parlato del rapporto (di collaborazione, di opposizione, a volte ambiguo) di classicisti e archeologi italiani nei confronti del colonialismo, dagli anni dello stato liberale agli anni del Fascismo fino al primo dopoguerra (degna di nota una relazione sulla figura della classicista militante Mariella Cagnetta, autrice di Antichisti e impero fascista); della cifra politica delle missioni di ricerca archeologica in Libia, ma anche in Anatolia e nel Dodecaneso negli anni della guerra Italo-Turca; del classicismo esplicito e irruento di monumenti coloniali sul territorio delle ex colonie (come ad esempio il «sallustiano» Arco dei Fileni, voluto da Italo Balbo al confine fra Tripolitania e Cirenaica e demolito da Gheddafi all’inizio degli anni settanta); di quello più subdolo e fantasmagorico di autori e autrici quali Gabriele D’Annunzio e Nella Orano; del ruolo dell’antichità classica nella pedagogia razziale del Fascismo.

Ma uno degli aspetti più importanti, su cui ci sarebbe ancora molto da lavorare, ha riguardato l’attenzione a contro-narrative sul tema provenienti da contesti e soggetti coloniali: che ruolo ha avuto l’educazione coloniale italiana, e il classicismo di quella educazione, nella formazione di intellettuali in Etiopia, Eritrea, Libia, Somalia? E come viene negoziato il complesso rapporto con l’eredità coloniale del classicismo in autori e autrici che trattano di colonialismo e postcolonialismo italiano, quali Alessandro Spina (pseudonimo di Basili Shafik Khouzam, nato e cresciuto in Libia da famiglia siriana), o la scrittrice italo-somala Igiaba Scego, autrice non da ultimo di Cassandra a Mogadiscio?

E infine, visto che Decolonizing Classics è in primo luogo un discorso a sfondo pedagogico, come possiamo e dobbiamo gestire il rapporto tra classici e colonialismo italiano nel contesto di classi liceali e universitarie che sempre di più includono, o dovrebbero includere, studenti e studentesse che vivono giornalmente sulla propria pelle il lascito della storia coloniale e post-coloniale italiana? In una stimolante lezione di chiusura ispirata ai saggi di bell hooks in Teaching to Transgress (tradotto in italiano come Insegnare a Trasgredire), Angelica Pesarini (professoressa di studi di italianistica, studi critici della razza e diaspora all’università di Toronto) ha presentato strategie educative su come far partecipare studenti e studentesse attivamente e creativamente a dibattiti odierni sulla re-significazione di spazi, reali e immaginari, su cui pesa la violenta eredità della nostra storia coloniale.

Ed è nei progetti di queste studentesse, che hanno re-immaginato come riconfigurare monumenti quali la statua milanese di Indro Montanelli o il Mausoleo a Rodolfo Graziani in memoria dei loro crimini coloniali, che possiamo intravedere i potenziali futuri di un movimento di ‘decolonizzazione’ il cui intento è quello di ‘recuperare’ piuttosto che di ‘cancellare’ un passato scomodo e cruento, difficile da ricostruire, e doloroso da ricordare.