Julieth Ramírez, 19 anni, studentessa di psicologia, stava tornando a casa con un’amica quando, trovatasi in mezzo alle proteste, si è all’improvviso accasciata al suolo, raggiunta al cuore da uno sparo. È morta sul colpo. Cristian Camilo Hernández, 26 anni, due figlie di 2 e 7 anni, stava realizzando la sua ultima consegna a domicilio della giornata, nel quartiere di Verbenal. È allora che, secondo un testimone, sarebbe stato fermato e trascinato via da due poliziotti, che poi gli avrebbero sparato in testa.

JULIETH E CRISTIAN sono appena due delle almeno dieci vittime della violenta repressione delle proteste esplose in Colombia in seguito alla morte di Javier Ordóñez, ucciso dalle scariche elettriche e dai colpi inferti da due agenti della polizia di Bogotà. Quasi tutti giovani dai 17 ai 27 anni, come soprattutto giovani sono le vittime dei nuovi massacri che stanno insanguinando il paese, quelli che il presidente Iván Duque insiste a definire «omicidi collettivi».

La violenza poliziesca dilaga per la capitale, trasmessa in diretta attraverso i video pubblicati dai media indipendenti e rilanciati dalle reti sociali. Filmati che mostrano una donna che cade a terra ferita e una decina di poliziotti che piomba su di lei e sul suo soccorritore colpendoli selvaggiamente, o un agente che corre sparando ad altezza uomo contro i manifestanti, tra tanti esempi di uso indiscriminato di armi da fuoco da parte di membri della polizia in almeno quattro località della capitale (Verbenal, Suba, Kennedy e Bosa).

QUALCUNO SI OSTINA a chiamarle «mele marce». «Apprezziamo il lavoro della nostra forza pubblica», ha assicurato il presidente Duque, invitando a ricondurre «questi fatti» a casi individuali e mettendo in guardia dal rischio di «stigmatizzare» la polizia. E lo stesso tono ha usato il ministro della Difesa Carlos Holmes, denunciando una campagna di delegittimazione delle forze dell’ordine.

MA NON LA PENSANO sicuramente così le migliaia di persone che giovedì, per il secondo giorno consecutivo, hanno dato vita a una quindicina di manifestazioni nella sola Bogotà, più ad altre a Cali, Medellín, Pasto e in altre città del paese, chiedendo giustizia per i morti e condanne esemplari per i responsabili degli assassinii, delle cariche violente, degli arresti arbitrari, delle aggressioni a giornalisti indipendenti e difensori dei diritti umani.

Mentre le ong esigono che vengano sospesi immediatamente tutti gli agenti operativi a Verbenal, dove la repressione è stata più brutale, oltre al comandante della polizia di Bogotà.

È UNA MOBILITAZIONE, quella innescata dall’omicidio di Ordóñez, che risente indubbiamente del clima di esasperazione già tradottosi nel grande sciopero nazionale proclamato a novembre dalle principali organizzazioni sindacali e studentesche contro le misure ultraliberiste del governo Duque.

E ciò prima che la pandemia, con i suoi circa 700mila casi di contagio e gli oltre 22mila morti, aggravasse ulteriormente il quadro, non solo esercitando un impatto devastante sui settori più poveri della popolazione, ma anche provocando un parallelo aumento delle violenze sia paramilitari che poliziesche. È quanto denuncia anche il rapporto «Il malgoverno dell’apprendista: autoritarismo, guerra e pandemia» diffuso il 9 settembre da più di 500 organizzazioni come bilancio del secondo anno del governo Duque. Un anno caratterizzato, secondo il rapporto, da una chiara involuzione rispetto alla difesa diritti umani, dall’aumento della violenza e delle disuguaglianze, da «una pericolosa concentrazione di potere» nell’esecutivo – 164 decreti legge in tre mesi, solo 11 dei quali relativi al sistema di salute – e da «attacchi all’indipendenza della giustizia».