Jimmy Lai, editore della testata di Hong Kong Apple Daily sotto la holding Next Digital, è nel mirino della giustizia dell’ex colonia britannica: è accusato di collusione con forze straniere, ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale.

Il volto del magnate dell’editoria aveva fatto il giro del mondo lo scorso 10 agosto: sul suo viso non si scorgeva altro che rassegnazione alla vista di più di 200 di poliziotti, intenti a cercare nella redazione documenti che dessero prova di presunta collusione con le forze straniere, un reato perseguibile ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale. Era stato fermato, e poi rilasciato su cauzione, per aver rilasciato ai media internazionali alcune interviste in cui denunciava l’erosione della democrazia portata avanti da Pechino.

Ma nella giornata di ieri è arrivata l’accusa formale. La polizia dell’ex colonia britannica, con una breve dichiarazione, ha reso noto che l’editore del giornale antigovernativo deve comparire oggi davanti ai giudici del tribunale di West Kowloon. La comunicazione è stata diffusa senza ulteriori dettagli.

Le autorità di Hong Kong non hanno specificato quali comportamenti abbiano infranto la legge sulla sicurezza nazionale, che non ha efficacia retroattiva. In base all’articolo 29 della norma, Lai potrebbe rischiare persino l’ergastolo. La sentenza potrebbe peggiorare la già critica condizione del tycoon, che è dallo scorso 3 dicembre in custodia cautelare, in attesa di processo per l’accusa di frode.

Ma ieri anche un altro esponente pro democratico è stato fermato con l’accusa di vilipendio alla bandiera cinese e assemblea legale: è il giovane attivista Tony Chung, in carcere da ottobre con l’accusa di incitamento alla secessione, un altro reato previsto dalla norma sulla sicurezza nazionale.

La Cina infatti vuole usare la sicurezza nazionale come un’arma per colpire la stampa libera e straniera. Nella guerra con Washington, combattuta a colpi di visti e accrediti per giornalisti, Pechino ha cercato di espellere i reporter stranieri scomodi. Ma se la limitazione non è sufficiente, scatta l’arresto.

Ieri è stata fermata a Pechino la giornalista di Bloomberg Haze Fan, accusata di aver preso parte ad attività che mettono in pericolo la sicurezza nazionale.

Ma Pechino non si limita a guardare ai propri confini interni. La Cina ha annunciato sanzioni per una dozzina di funzionari Usa, membri del Congresso e dipendenti di Ong, ma bisogna attendere per conoscerne i nomi. La misura è scatattato dopo il divieto di entrare negli Usa imposto recentemente a 14 vicepresidenti del parlamento cinese, compreso un membro del Politburo.

Ad alimentare le tensioni a livello internazionale è anche la corsa ai vaccini contro il Covid-19. Le case farmaceutiche cinesi hanno anticipato i tempi, pubblicando dati poco trasparenti sulle diverse fasi di test. I gruppi che lavorano sul vaccino sono Sinopharm, Sinovac Biotech e CanSino Biologics e già hanno all’attivo contratti di vendita con diversi Paesi stranieri. La governatrice di Hong Kong Carrie Lam ieri ha dichiarato che la città ha firmato un accordo per l’acquisto di 7,5 milioni di dosi del vaccino sviluppato da BioNTech/Pfizer e 7,5 milioni di quello dell’azienda cinese Sinovac Biotech. Ma le prime dosi che saranno inoculate da gennaio agli hongkonghesi sono del cinese Sinovac. E alla luce degli scandali sul vaccino cinese, Lam ribadisce che la scelta non deve essere valutata in ottica politica, ma scientifica. L’obiettivo è far tornare Hong Kong sotto l’ombrello della Cina, che dichiara di aver sconfitto il virus.