Era il 1978 e, all’apertura del corso su Giovanni Battista Piranesi, Maurizio Calvesi disse parole che mi colpirono molto. Secondo Calvesi, lo storico dell’arte poteva porre all’oggetto dei suoi studi domande di ogni genere, ma le questioni relative alle motivazioni primarie dell’arte – il perché, sin dall’infanzia, gli esseri umani, messi di fronte a un foglio di carta, disegnino un’immagine, senza essere mai stati educati a farlo – dovevano rimanere sullo sfondo perché, così radicali, erano di pertinenza, più che dello storico d’arte, dell’antropologo, dello psicoanalista o del sociologo.

L’art brut invece ci mette di fronte proprio alle questioni fondamentali dell’espressione. La locuzione fu inventata alla metà degli anni quaranta da Jean Dubuffet, artista ed erede di una famiglia di mercanti di vino. Da quel mondo l’autore potrebbe aver tratto l’aggettivo «brut»: riferito al sapore aspro di certi vini, esso veniva esteso per analogia alle forme di espressione visiva non toccate dall’«asfissiante cultura», sorgive, primarie, praticate da autrici e autori (fin dall’inizio, il canone dell’art brut ha accolto in modo equanime artisti di entrambi i sessi) privi di educazione artistica e vissuti preferibilmente in condizione d’isolamento, ma non per questo necessariamente malati di mente.

Come disse una volta Dubuffet, non esiste un’arte degli psicotici così come non esiste un’arte dei dispeptici. È il tema su cui, nel 1949, in seno alla Compagnie de l’art brut (fondata l’anno prima con André Breton, Jean Paulhan, Charles Ratton, Henri-Pierre Roché e Michel Tapié), Dubuffet entra in conflitto con Breton, che per l’«Almanach de l’art brut» aveva scritto il testo L’art des fous: la clé des champs, insistendo sull’equivalenza, ancora romantica, fra genio e follia. Dubuffet pensava invece a una creatività insita in ogni essere umano, a condizione che essa non fosse costretta e corrotta dal contatto con le arti culturali.

Senza il surrealismo, tuttavia, difficilmente Dubuffet avrebbe teorizzato l’art brut: il suo ruolo storico è stato infatti quello di raccogliere originalmente e rilanciare verso la seconda metà del secolo interessi e scoperte che, dagli inizi del Novecento, avevano iniziato a toccare aspetti e autori dell’art brut, prima che Dubuffet inventasse il nome. Nel 1907 Marcel Réja aveva scritto sull’arte dei folli e nel 1921 Walter Morgenthaler aveva pubblicato una monografia su Adolf Wölfi, suo paziente rinchiuso per trentacinque anni nell’ospedale psichiatrico di Waldau, in Svizzera. Nel testo le opere di questo grande maestro erano considerate sotto il profilo estetico e non sintomatologico.

L’anno successivo usciva il libro sull’espressione artistica dei malati di mente (Bildnerei der Geisteskranken) di Hans Prinzhorn, laureato in storia dell’arte e poi in psichiatria. Prima della guerra Prinzhorn aveva respirato a Monaco la stessa aria degli artisti del Cavaliere Azzurro e aveva fatto tesoro dell’idea kandinskiana che l’arte fosse espressione della «necessità interiore». Dopo il conflitto, in contatto con psichiatri di tutta Europa, Prinzhorn aveva riunito a Heidelberg la più grande collezione di arte psichiatrica del continente. Il suo libro e le illustrazioni che lo corredavano furono una bibbia per i surrealisti.

Dubuffet si incarica di perimetrare il territorio dell’art brut e costruisce un canone dove la separazione fra quest’ultima e l’arte culturale è rigida e invalicabile. A partire dalla documenta del 1972, quando Harald Szeemann presenta le opere di Wölfi nel contesto di un’esposizione di arte contemporanea, il confine posto da Dubuffet comincia a sfumarsi e sempre più l’art brut è presentata accanto al resto dell’arte presente: la frizione produce scintille ed emergono aspetti comuni, approfonditi dalla critica in anni più recenti. Alla Biennale di Venezia del 2013, ad esempio, Massimiliano Gioni espone senza soluzione di continuità opere di art brut accanto a espressioni diverse della creazione contemporanea. E nel 2021 il cineasta e collezionista Bruno Decharme dona un migliaio di lavori di art brut al Centre Pompidou, dove vengono allestiti a rotazione, mescolati al resto delle raccolte del museo.

Decharme ha tenuto per sé circa quattromila opere, da cui ha scelto le centottanta che compongono la mostra Epopee celesti (alla Villa Medici di Roma, fino al 19 maggio), dove si susseguono capolavori di bellezza abbagliante, dai primi del Novecento a oggi, divisi in sei sezioni tematiche introdotte in catalogo da Barbara Safarova (curatrice della mostra assieme a Decharme, a Caroline Courrioux e a Sam Stourdzé).

Ci sono madri e padri fondatori, tra cui Wölfi e Aloïse Corbaz. Quest’ultima fu istitutrice e governante presso la corte dell’imperatore tedesco Guglielmo II, del quale s’innamorò. Tornata in Svizzera e internata in manicomio, iniziò a produrre immagini di principesse e principi, dagli occhi senza iridi e pupille, allagati di azzurro e quindi resi ciechi, quasi a difendersi dal loro sguardo (Michel Thévoz). Se non le bastava un foglio, ne univa un altro, cucendolo, e poi lo stirava, memore del suo antico mestiere.

All’inizio della mostra si incontra anche il grande disegno di un’architettura neogotica inventata, di Achilles Rizzoli, trasfigurazione simbolica della madre. Rizzoli è parte del folto gruppo di autori brut che immaginano o costruiscono architetture fantastiche, come il «facteur Cheval» la cui casa, meta prediletta dai surrealisti, è talmente carica di rilievi da rassomigliare al tempio di Borobudur. Fra i primi lavori in mostra si trova anche un vasto collage con una scena dell’eterna lotta tra le buone «Vivian Girls» e i cattivi «Glandelinianians», episodio di una serie realizzata da Henry Darger nell’intimità della sua casa di Chicago e mai mostrata dall’autore ad anima viva, misto idiosincratico e potente d’infantilismo e perversione.

All’inizio dello scalone si incontra una scultura di A.C.M., che da lontano appare come un bastimento fantastico ed è in realtà l’esito di un assemblaggio delle interiora di strumenti elettronici. Una sezione della mostra è dedicata agli artisti che incontrano i fantasmi, come Fernand Desmoulin, Miroslava Ratzingerová e un «Mettraux», di cui non è noto il nome proprio, autore di un gruppo di fotomontaggi d’intensità perturbante: sono ritratti fotografici di persone nei quali la parte degli occhi è ritagliata e incollata sottosopra.

Si succedono poi lavori di tante autrici e autori celebri, quali Scottie Wilson, Madge Gill e Carlo Zinelli, quest’ultimo rinchiuso dal 1947, per quasi trent’anni, nel manicomio veronese di San Giacomo alla Tomba. Il suo mondo è popolato da sagome di omini, uccelli, somari, alpini, barchette, donne di paese in piedi con la borsetta in mano… Geroglifici di un linguaggio di cui ci manca la chiave, organizzati sul foglio con un senso innato per l’impaginazione.

In Carlo, in Wölfi, in Aloïse o nell’indonesiano Noviadi Angkasapura si uniscono spesso immagine e scrittura. Al tema è dedicata la ricca mostra Scritture erranti, inaugurata al Museo Laboratorio di arte contemporanea dalla Sapienza il 4 aprile, dove si ritrovano lavori di Carlo e Angkasapura, accanto a tante altre opere (non solo di art brut) che presentano parti scritte.

Un vestito ricamato da Melina Riccio con i versi del Salve Regina è affiancato a un testo tracciato con il mercurocromo su tela da Michel Nedjar, dove talvolta il disinfettante che serve da inchiostro si allarga a macchia, come una stilla di sangue sulla garza di una ferita. La mostra è curata da Gustavo Giacosa, studioso e collezionista di art brut (con Fausto Ferraiuolo), nonché autore di uno scritto per il catalogo di Villa Medici. Giacosa cura anche, nello spazio Sic12 di Roma, la personale Aspettando la bomba dell’artista brut Giovanni Galli: sono fogli dove figure in guêpière e immagini di ordigni eseguite a pastello si alternano a scritture, prefigurando il giorno in cui l’olocausto nucleare produrrà il cambio di sesso agognato dall’autore.

Le tre mostre in corso a Roma fanno pensare che si sia aperto uno spazio nuovo nella considerazione dell’art brut. Del resto nei giorni scorsi, salutando il pensionamento di Roberta Smith, una delle grandi firme del New York Times per la critica d’arte, alcuni commentatori hanno sottolineato il suo duraturo interesse per l’art brut. Forse vent’anni fa non sarebbe successo.