Era un futuro frantumato e inverosimile, era il presente straniante dall’epidemia planetaria che stiamo attraversando, o era il 1992, l’anno in cui Coline Serreau concepì il suo film più presago, La crisi?

Comunque fosse, da quella prima crepa ne sarebbero venute fuori altre. E ancora. C’era qualcosa di peggio della catastrofe personale di Victor, svegliarsi e scoprire che la moglie lo aveva lasciato, che aveva perso il lavoro di avvocato in uno degli studi più prestigiosi di Parigi e che la sua segretaria sapeva da settimane del licenziamento?

Sono un medico, mi fa felice guarire la gente, con la medicina allopatica ero sull’orlo del suicidio, 70 visite al giorno, ho incrementato il deficit della sanità, arricchito l’industria farmaceutica…. Così sarebbe sbottato il suo amico omeopata con la moglie che – sacramentando di debiti nella sala zeppa di pazienti – gli urlava di tornare all’allopatia. Impossibile anche solo accennargli le disgrazie per cui era andato a trovarlo.

Dei tuoi problemi non me ne può fregare, strafregare, strafottere di meno. In compenso così gli avrebbe risposto sua madre – in procinto di partire con l’amante, dopo una vita sacrificata alla famiglia – e meno male che ci sono almeno le madri con cui confidarsi.

Non ti domandi come mai la terra sia un immondezzaio? Come mai la gente muoia sempre più di tumore? Così i figli adolescenti di un deputato socialista – nella cui villa la sorella lo avrebbe trascinato – avrebbero gridato in faccia al padre la loro rabbia e confessato di aver gettato la cena nella spazzatura (il foie gras, fegato tossico di animale torturato, il manzo imbottito di antibiotici, gli alcolici e i dolci).

La moglie del deputato avrebbe lodato l’affidabilità delle colf filippine, perché le portoghesi sono pulite ma ladre, le nere sempre stanche… e il deputato avrebbe chiesto a Michou, quello strano personaggio che in quel frangente infernale della sua vita aveva preso non so come a seguire Victor, a quel piccoletto disoccupato da tre anni, con il fratello in attesa di sussidio, il nipote morto in moto e la cognata col cancro, a lui avrebbe domandato come potesse dirsi razzista, dove fosse finita la Francia tollerante, e se per caso non votasse Le Pen (uno/a per tutte le stagioni…). Non capiva che così non avrebbe risolto i suoi problemi personali?

Quello che capisco è che tre quarti del pianeta sta nella merda e allora cercano di piazzarsi dove ce n’è di meno, ma finora chi si è dovuto stringere per fargli posto siamo stati noi di Saint-Denis… Avrebbe detto allora quel «un poveraccio un po’ scemo», che peraltro non poteva votare perché senza fissa dimora. Il deputato gli avrebbe così chiesto se non fosse addirittura comunista, e Michou avrebbe risposto che aveva provato, sì, ma non riusciva a seguire la linea, se non a zig zag.

A questo punto le parole sarebbero state nell’aria come fumo tossico, alla stazione giovani disoccupati avrebbero bivaccato a terra, il mondo sarebbe deflagrato, strato a strato come carta da parati incollata male. Ma non sarebbe stato niente rispetto al realizzare che in quel tempo alieno l’ascolto, l’attenzione all’altro, erano stati banditi e che ogni tentativo di Victor di raccontare le cose rovinose che gli erano accadute, moriva sul nascere, inghiottito dalla traiettoria micidiale delle vite degli altri.

Sul blog
«Cosa è davvero importante per noi? Vivere virtualmente? Mangiare prodotti di una terra martoriata che avvelena i nostri corpi? Arricchire con il nostro lavoro chi ottiene enormi bonus licenziando? Accettare la violenza sociale di chi ha impoverito il nostro sistema sanitario e ci sta dando lezioni di solidarietà? Sottoporci a una medicina presa solo dal trattamento dei sintomi e non dalla prevenzione?».

Se si eccettua il virare delle nostre vite verso il virtuale (questione comunque in nuce nel film), le domande di cui sopra potrebbero tranquillamente far parte de La Crisi di quasi trent’anni fa, invece sono un brano dell’intervento di Serreau, pubblicato dal blog Hubert.Rousseau, domenica 22 marzo 2020.
Mi sembra di vivere in mezzo alla nebbia. Allora significa che comincia a scorgere qualcosa. Vuol dire che prima ero così cieco da non vedere neanche la nebbia?

Questo scambio tra il protagonista Victor e la suocera, cui aveva affidato i bambini, ci dà la misura del sovrapporsi dei piani temporali, dell’abisso in cui siamo precipitati, senza mai insorgere o stracciarci le vesti, come ha scritto Maurizio Maggiani, quando il nostro Sistema sanitario nazionale (esemplare attuazione della nostra Costituzione egualitaria), veniva falcidiato o mentre si depauperava il pianeta, ammorbando cieli e mari, e consentendo all’agricoltura intensiva di abituarci al veleno di un cibo prodotto con la sofferenza tremenda degli animali.

«Ci sono realtà economiche dietro l’inquinamento, gli allevatori, la concorrenza», rispondeva nel film il deputato socialista ai figli-Greta Thumberg ante litteram.
Trattiamo alcuni esseri umani allo stesso modo in cui trattiamo le piante e gli animali martoriati, riflette oggi Serreau; pensando a Michou e a tutti i soggetti più fragili che – come sempre – si sono trovati a patire ancor più gli effetti della pandemia (dai bambini agli anziani, alle donne di ogni età, alle lavoratrici e ai lavoratori meno tutelati, ai migranti e a tutti coloro che vivono disagio economico e psichico), sa guardare oltre la scorza del suo essere «razzista verso gli arabi», ossia escludendo Jamila, la cognata che lo ha cresciuto, gli amici, i vicini della scala A, B, C, D…

Vincere la guerra
E aggiunge: «se i virus – come noi – fanno parte della zuppa cosmica, rafforziamo il nostro sistema immunitario con uno stile di vita non mortifero». Compriamo meno, trasportiamo meno, inquiniamo meno; con il lavoro da remoto, le città respireranno: alleggeriamoci dell’aggressività dello spostarci coatto. Auspicando poi sia G.A.F.A. (Google Amazon Facebook Apple), a insufflare tasse-risorse nella società, pensa a quanti in condizioni estreme hanno messo al primo posto la cura della persona (perché non è uno scontro tra visioni della medicina che cercano di negarsi l’un l’altra, ma si tratta di considerare tutti gli apporti, rimettendo al centro l’attenzione profonda all’umano (nel film si elogiava la medicina cinese secondo cui il medico non viene più pagato se il paziente si ammala…).

Cannes
Si rivolge poi alla cultura istituzionale, per lo più appannaggio delle élite e dei burocrati, incapace di essere inclusiva. In questa direzione quei festival del cinema, come Cannes, consumati da contraddizioni, da un sistema fallocratico, dall’industria del lusso, dovranno reinventarsi. Abbraccia col pensiero coloro che hanno continuato a fare concerti, a leggere poesie… «Perché è questa la cultura necessaria, voci che cantano oltre la solitudine».

Alla voce di Jamila – una donna araba rifiutata dai suoi perché aveva voluto sposare un francese, una anziana ora morente – dedica il finale. Guardando la bellezza intatta delle montagne dove è salito con «il signor Victor», Michou sente il desiderio lancinante di andare a trovarla e di non accettare più soldi dall’altro. E Victor, dopo che Jamila gli sussurra all’orecchio il segreto per fare l’amore con la moglie amandosi attraverso il tempo, riesce a udire il suono del violino latente nel film. Qual è questo segreto? Ho paura della morte? C’è qualcuno che può amarmi incondizionatamente? Perché ho scelto lei e non un’altra persona?
Era il ’92, o forse il 2020, l’anno luttuoso della Crisi, quando avevano ricominciato a fiorirci dentro domande su domande.