È uscito Sesso, razza e pratica del potere (ombre corte, a cura di Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, pp. 245, euro 22) di Colette Guillaumin (1934-2017). Il volume, pubblicato in Francia nel 1992 e riedito nel 2016, raccoglie articoli scritti dalla sociologa femminista tra il 1977 e il 1992 solo quattro dei quali già tradotti in rivista o nel prezioso Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia (Alegre, 2013). Quell’agile antologia riuniva un articolo per ciascuna delle pensatrici che Guillaumin stessa omaggia nell’introduzione del suo libro, «Niente di tutto questo sarebbe potuto essere pensato, e ancora meno comunicato e discusso, senza il lavoro teorico di Nicole-Claude Mathieu, Monique Wittig, Paola Tabet, Christine Delphy», e insieme alle quali operò «una formidabile messa in discussione delle “evidenze”, forma sacra dell’ideologia».

Colette Guillaumin durante la giornata di studio organizzata dall’Anef nel 1997 a Parigi, Les féministes face à l’antisémitisme et au racisme. La foto è di Nicole Décuré

 

INFATTI, per queste teoriche, il sesso e la razza non sono ovvietà naturali bensì relazioni di potere specifiche che costituiscono classi di dominati e di dominanti, le donne e gli uomini, i bianchi e i non bianchi.
Sesso, razza e pratica del potere è dunque un tassello di quell’impresa teorica collettiva che, sulla scia di de Beauvoir, osò rendere suscettibile di cambiamento la radice più profonda dell’oppressione delle classi di razza e di sesso, cioè il concetto di natura. Significativamente, il volume di Guillaumin si apre con Pratica del potere e idea di Natura, articolo apparso a puntate in due numeri della rivista Questions féministes intitolati rispettivamente «Les corps appropriés» e «Natur-elle-ment», trovata geniale in cui naturalmente diventa natura, lei mente, ironizzando sui giochi di parole del gergo psicoanalitico in voga all’epoca presso PsychetPo.

A seguito della sua tesi di dottorato, pubblicata nel 1972 con il titolo L’ideologie raciste e in cui Guillaumin analizza la «razza» non come un insieme di pregiudizi ma come una costruzione storica, economica e simbolica che trasforma il tratto somatico del «colore» in feticcio, «marchio» di una natura specifica, l’autrice si avvicinò al movimento femminista analizzando la divisione socio-sessuale come veicolo di costruzione dei corpi sessuati e razzializzati (racisés).

Nei saggi antologizzati in questo volume, Guillaumin evidenzia come sessismo e razzismo, pur avendo le proprie specificità, funzionino entrambi sulla base di una dinamica doppia, materiale e ideologica, in cui l’ideologia serve a giustificare l’oppressione materiale come esito di leggi meccaniche o mistico-naturali così da evacuarne la matrice politica: «È in questo modo che la schiavitù diventa un attributo del colore della pelle, la non remunerazione del lavoro domestico un attributo della forma del sesso».

PER QUANTO SAPPIAMO che le parole non si limitano a riflettere la realtà ma contribuiscono a costruirla, ogni volta che questa idea prende forma concreta nella nostra esperienza, ci prende uno stupore, come se indossando un nuovo paio di occhiali il mondo ci apparisse per la prima volta. Ciò accade leggendo Guillaumin, il cui pensiero può essere ripercorso in alcune voci-chiave (marchio, classe di sesso, formazione immaginaria) ognuna delle quali sintetizza e veicola il suo approccio concettuale. Una delle voci principali è certamente sessaggio (sexage) concepita per analogia con esclavage e servage per indicare il rapporto di appropriazione individuale e collettiva non solo della forza lavoro ma del corpo stesso delle donne come macchina di lavoro produttivo, procreativo e di riproduzione sociale. Tale appropriazione crea la classe delle donne implicando per esse l’obbligo sessuale e procreativo ma anche l’ingiunzione alla riproduzione sociale, alla cura degli invalidi, degli anziani, dei bambini, delle pulizie. Da simili meccanismi dipendono la segregazione sessuale degli spazi, la divisione sessuale e razziale del lavoro con il sistematico accaparramento del tempo e del corpo delle donne, tanto più se povere e non bianche, la conseguente acquisizione di libertà delle une (bianche di classe media) a discapito delle altre (non bianche e povere).

IL PENSIERO di Guillaumin si dispiega attraverso uno stile peculiare, spesso sarcastico, effetto di quella collera delle oppresse di cui scrive in Donne e teorie della società, saggio che chiude il libro e che le curatrici hanno reso disponibile online. Nella prosa della sociologa non mancano poi spunti di cronaca o brevi apologhi a tenere insieme la teoria e la vita: c’è l’uomo che in una strada di Parigi prende di mira solo le donne toccando loro il sesso o il massacro di 14 studentesse al Politecnico di Montréal nel 1989, episodi liquidati dal discorso comune o dalla cronaca come accessi di follia ma in realtà espressioni di una violenza strutturale che costruisce le donne in quanto sesso di cui disporre e da terrorizzare; o anche in quanto vittime, come quando nel 1989 a La Rochelle una bambina fuggì il suo aguzzino dopo una notte di sevizie calandosi dal quinto piano di un palazzo e nessun giornale spese una parola sulla sua audacia e sangue freddo.

Al netto di qualche aggiornamento, queste analisi rimangono purtroppo valide quando sottolineano come la violenza, esercitata o minacciata, sia una delle tecniche di cui si avvale quel processo di costruzione e differenziazione dei corpi che è un fenomeno incessante, ma anche instabile. Un’analisi radicale dei meccanismi sociali condotta, come fa Guillaumin, tramite sintesi fulminanti che si mandano a memoria e scavano varchi nella coscienza può infatti offrire quel «capovolgimento delle prospettive» che è il presupposto per un cambiamento sociale.