Il Codex Seraphinianus di Luigi Serafini (oggi ristampato, in occasione del quarantesimo anniversario, da Mondadori Electa nella collana «Rizzoli illustrati», con 18 tavole inedite: pp. 392, euro 120,00) s’è guadagnato in questi anni la nomea d’uno dei libri più stravaganti al mondo. Su come fu concepito abbiamo ormai ragguagli sufficienti. Le prime tavole furono ideate dall’artista a ventisette anni. Erano «corpi umani ibridati con protesi a forma di pinza, ruota di bici e penna stilo»; seguì l’invenzione di quel suo alfabeto, aggomitolato e tortuoso, come un germoglio fantastico di quei riccioli che abbellivano le lettere corsive degli scolari d’una volta.
Anche le immagini presero a fruttificare con una virulenza di «automatismo felice», come egli stesso ricorda, senza, tuttavia, che per questo il disegno tradisse nulla d’affrettato e impulsivo. Se, anzi, di surrealismo si vuol parlare a proposito della immagini raccolte nel Codex, sarebbe più facile accostare Serafini ad alcuni esponenti più appartati del movimento, come Fabrizio Clerici: per entrambi il piacere dell’accostamento inatteso, della metamorfosi, dell’impertinenza visiva ha trovato una griglia severa per esprimersi, che in Clerici fu il recupero d’un rinascimento bramantesco, in Serafini l’Encyclopédie, con le sue tavole anatomiche, le sue illustrazioni perspicue e severe.
Fu notato fin dal principio: il Codex, originariamente stampato dall’editore Franco Maria Ricci in due volumi, dei quali uno dedicato alle scienze della natura e l’altro alle scienze dell’uomo, ubbidisce a una «metrica da enciclopedia». E non si tratta soltanto del piano dell’opera. Il nitore del disegno, su cui si riverberavano gli studi architettonici dell’autore, richiama la lingua affilata e trasparente di d’Alembert, così come la scomposizione degli oggetti più fantastici nelle loro parti elementari sembra modellarsi su una paradossale esigenza razionalistica, simile a quella espressa dai philosophes. Parimenti al Settecento sono da ricollegare i suoi prospetti d’architetture fantastiche – ville sormontate d’agavi coralline tese come parafulmini, grandi archi culminanti in minuscoli templi –, le sue planimetrie impossibili, che, per la nettezza dei contorni unita alla ricchezza immaginifica, ricordano le creazioni degli architetti più visionari di quell’epoca, come Jean-Jacques Lequeu, le cui palazzine cinte da teste di cervo piacquero appunto a Breton.
Italo Calvino rimase incantato dal libro per ragioni che possono facilmente desumersi: la vertigine del labirinto era data in una forma chiara e precisa. L’esattezza della parola dello scrittore corrispondeva all’esattezza del segno dell’artista, l’ars combinatoria all’ars combinatoria. Nel 1981 le tavole di Serafini furono l’espressione d’una poetica che in letteratura italiana aveva trovato i suoi esiti più alti nelle Città invisibili, nel Castello dei destini incrociati, e anche nel Manganelli di Centurie.
Sono trascorsi alcuni decenni dall’apparizione del Codex: l’originalità di molte sue trovate, la sua stravaganza appaiono ancora intatte. V’è da intendersi sul concetto di stravaganza. Nell’introduzione agli Iconismi e Mirabilia di Athanasius Kircher (Edizioni dell’Elefante, 1999), Umberto Eco si domandava cosa rendesse tanto affascinanti ai nostri occhi le tavole della Misurgia universalis o della Phonurgia nova, che all’apparenza sembrerebbero destinate soltanto a studiosi dell’insolito e del particolare come Jurgis Baltrušaitis. A suo giudizio, Kircher sbagliò quasi tutto, e dalla precisione iconica con la quale incarnò l’infondatezza dei suoi sistemi deriva quell’impressione di eccentricità che ancora oggi ci colpisce nello sfogliare le incisioni dei suoi volumi.
Se il gesuita avesse anticipato gli esiti scientifici della modernità, capiremmo intuitivamente in quei progetti ciò che invece non possiamo comprendere senza l’ausilio di libri specialistici. Un discorso simile potrebbe farsi per le formicolanti visioni di Bosch: esse non ci apparvero più altrettanto arbitrarie dopo che i lavori di Fraenger ne ebbero svelato il legame col movimento del Libero Spirito. Ma per quante fra le bizzarrie che hanno accatastato per noi il Manierismo e il Barocco, dall’arte più grande scendendo giù fino ai gradini più infimi, non potrebbe ripetersi questo assunto? I libri di emblemi, Bomarzo, la lista sarebbe infinita… La singolarità di queste opere non è intrinseca, dipende in larga parte dalla consapevolezza storica di chi le osserva: è un valore mobile. La fortuna del Codex discende dall’aver saputo fissare lo stato di candore del lettore non edotto: la condizione d’un barbaro o d’un fanciullo, come scriveva lo stesso Ricci nella Nota dell’editore che accompagnava la prima stampa. Il fascino delle sue visioni non potrebbe perciò spiegarsi senza dar conto, come in molte curiosità seicentesche, della loro speciosa eloquenza.
Poco si è scritto in proposito della tecnica di Serafini, della nitida profondità dei suoi neri che notomizzano, alla maniera d’un bulino, la materia sfuggente della sua immaginazione, fatta d’ircocervi, di falene meccaniche, di cavalli a corda e d’altre ibride folies da digradarne la villa di Palagonia o una pagina di Nodier: «zoologia le cui leggi evolutive – scriveva Calvino – sono la metafora, la metonimia, la condensazione d’immagini». I colori sono invece leggeri e tendono a sfumare, assecondando la materia ambigua di queste creature che da lignea trapassa in ossea o da soda che era si fa spugnosa, se rigida, si rammollisce oppure, organica, si fossilizza. E se questo principio metamorfico, potenzialmente infinito, ha consentito alle nuove tavole d’integrarsi alle vecchie, quasi si fossero generate da sé per spontanea partenogenesi, come stupirsene? Forse ciascuna immagine del Codex ne cela altre in potenza e la sua struttura segreta somiglia a quella uliginosa rete sotterranea che i botanici chiamano micelio e che non esaurisce la sua forza vitale nel fungo ma continua ancora ad estendersi e diramarsi in molteplici filamenti. Quel che è certo è che il Codex s’apparenta all’opera d’artisti come Fornasetti per i quali anche la follia, secondo la celebre frase di Polonio, necessita di un metodo.