Bevi la Coca cola che ti fa lincenziare. Altro che bollicine. La multinazionale più multinazionale del mondo non vuole più puntare sull’Italia. O meglio. Vuole usare il bel paese come un bancomat. Punta a fare utili dandola a bere agli italiani ma senza farli più lavorare. E’ la solita vecchia storia del capitalismo globale: vendi dove fai pagare di più e assumi dove paghi di meno, in termini di salari e di diritti dei lavoratori. Non c’è bisogno di un genio di strategia aziendale per applicare una ricetta tanto banale quanto disumana.
Coca cola Italia solo pochi anni fa impiegava 3000 persone, poi nel giro di pochi mesi ha mandato a casa in tre tranche circa mille dipendenti. L’ultimo dimagrimento è stato annunciato meno di un mese fa e punta a liberarsi di 249 addetti alle vendite e di tutti i 57 lavoratori del centro di Campogalliano in proivincia di Modena. Per questo ieri i lavoratori hanno scioperato per otto ore e in diverse centinaia hanno dato vita ad un presidio davanti alla sede di Assolombarda a Milano che è durato per tutta la mattinata. Intanto i sindacati hanno incontrato l’azienda per una lunga riunione che si è protratta fino a sera.
«Altro che Coca Cola Summer festival, qui è il Coca Cola tutti a casa festival – racconta Giulia del centro di campogalliano con sul perfetto accento modenese – in televisione si fanno belli con le canzoni intanto a noi ce le cantanto e ce le suonano davvero». La multinazionale in Italia ha tre stabilimenti e due centri di televendita nel modenese e a Buccinasco, hinterland di Milano. Inoltre ha la sede centrale a Milano dove lavorano circa 250 persone che è già stata pesantemente depotenziata: buona parte del settore amministrativo, e in particolare il settore crediti, è stato trasferito a Sofia in Bulgaria. Ma adesso il taglio più consistente riguarda la rete degli addetti alle vendite sparsi sul territorio nazionale, sono più di 800 e quasi 250 rischiano di perdere il posto. Non sono i classici lavoratori abituati alle lotte, non sono operai, sono venditori, si sentono sfruttati e smarritti. «Il mio lavoro è vendere la Coca cola e alla fine sono loro, la mia azienda, a svendere il mio posto di lavoro – scrolla la testa Antonio – tra poco non so proprio come farò a vivere».
«Coca Cola hai dimenticato la formula della felicità?», recita uno dei tanti cartelli che fa il verso agli spot buonisti e sdolcinati che propagandano la bibita. E ancora. «La crisi?! Noi non ce la beviamo!». In effetti gli affari della Coca Cola da queste parti non vanno affatto male. Nel 2013 il gigante delle bollicine ha guadagnato solo in Italia 70 milioni di euro. «Non potremo neppure ricorrere alla cassa integrazione, perché questa non è affatto un’azienda in crisi», avverte stupefatta Francesca, meno di 40 anni, impegata della centrale modenese. «E’ un meccanismo molto duro – continua – non si possono mettere sulla strada le persone in modo così arbitrario e ingiustificato. Loro si muovono nel mondo come se fosse tutto a loro disposizione, ma noi invece siamo legati al nostro territorio, alle nostre famiglie, agli anziani, ai bambini. Altro che mobilità».
L’annuncio dell’ennesima riorganizzazione è arrivato come un fulimine a ciel sereno lo scorso 16 luglio, proprio poche ore dopo un accordo con i sindacati che impegnava l’azienda a mantenere gli investimenti in Italia e stabiliva addirittura dei premi di produzioni fino a 6 mila euro per il biennio 2014-2016. Ieri Uila, Flai Cgil e Fai Cisl hanno di nuovo incontrato i dirigenti di Coca Cola. Dopo lunghe ore di trattative l’azienda avrebbe concesso solo un po’ di tempo in più, fino ad ottobre, per valutare il numero di mobilità volontarie a fronte di incentivi e di ricollocamenti ancora tutti da definire.