Lukas Dhont, belga, trentuno anni, è un regista immerso nello «spirito del tempo». Lo era al suo primo film, Girl (2018) premiato con la Caméra d’or a Cannes, che lo ha lanciato nel mondo, lo è in questa sua opera seconda, anch’essa presentata a Cannes – in concorso – dove ha ottenuto il Gran premio della giuria. In entrambi lo spazio (emozionale) in cui si muove è quello dell’adolescenza coi suoi malesseri, le solitudini dei sentimenti, i desideri incerti, i cambiamenti che sorprendono. E soprattutto l’accettazione degli altri, nelle loro singolarità, e quel rapporto ambiguamente irrisolto tra le scelte personali e la necessità di adeguarsi a codici, regole, rappresentazioni che dividono rigorosamente a cominciare dal «genere».
Se Girl era la storia di una giovanissima trans e nella sfida continua col suo corpo, che avveniva nella transizione e nei durissimi allenamenti per diventare danzatrice classica – seppure sostenuta da una famiglia e da istituzioni molto accoglienti – qui si parla di un’amicizia che mette i due protagonisti in una condizione difficile nel confronto col mondo.

LEO E REMI hanno tredici anni e sono inseparabili. I loro corpi nervosi si muovono su quel bordo di grande fluidità fra infanzia e adolescenza; le estati sono corse di gambe magre lanciate a perdifiato, giochi nei campi di fiori che lavorano i genitori di Leo, per le due famiglie i ragazzini sono reciprocamente come dei figli; Leo dorme a casa di Remi, e viceversa, la loro complicità è fusionale. E poi? Poi inizia la nuova scuola, i due sono in classe insieme, il loro legame che fino a quel momento era vissuto in modo del tutto «normale» si fa «diverso» negli occhi degli altri. Basta poco, uno sguardo, qualche frase nei corridoi durante la ricreazione, la domanda di chi chiede se sono una coppia, per far scattare in Leo l’ansia di dimostrare la sua mascolinità. 100% maschio, anzi iper maschio, quindi pallone, hockey sul ghiaccio, altri amici – i più trucidi della classe – e un’improvvisa freddezza verso Remi – ragazzo «problematico» per i suoi nuovi compagni – che invece preferisce suonare il flauto e chiacchierare con le ragazze. Basta pochissimo, un gesto più violento, un’improvvisa indifferenza, la volontà esibita di essere nel gruppo chela presa di distanza sfocia in una tragedia, portando Leo a confrontarsi coi sensi di colpa e col dolore di una perdita.

 

Più che Xavier Dolan ricordato un po’ nella texture delle immagini il riferimento più esplicito sono per Dhont i fratelli Dardenne -«citati» non solo per la macchina che si muove dietro ai protagonisti ma anche per la presenza di Emilie Dequenne, la Rosetta del loro film del 1999 divenuto iconico (e pure spesso malamente frainteso) per molte generazioni successive – ma i fratelli belgi non avrebbero mai utilizzato le luci accattivanti che Dhont invece dispiega, e nemmeno i crescendo di pathos sottolineati dai continui stacchi musicali. Nelle parole del regista che da ragazzino sognava di diventare come James Cameron (dopo la visione di Titanic) Close vuole essere un film che «emoziona»; quel sentimento, però è più sentimentalismo pensato per accarezzare le aspettative del pubblico, commuoverlo, farlo palpitare con una scrittura così organizzata (e prevedibile nelle sue traiettorie) da raggelarne ogni possibile imprevisto.

VI SFUGGONO un po’ e loro malgrado i giovani interpreti, più Gustav De Waele – che dà vita a Remi, sempre un passo indietro all’amico – che Eden Dambrine (Leo) il quale sostiene ogni inquadratura. Il suo romanzo di formazione – da cui gli adulti vengono esclusi – fatto di silenzi nella tensione verso una lacrima, o una diversa consapevolezza rimane privo di vie di fuga, di quel movimento – non esibito come fa Dhont nelle inquadrature e nei movimenti di macchina ma sempre segreto e inafferabile che è emozionare.