«Sully dovrebbe correre per la presidenza, non questa gente». È estate, siamo nel pieno della campagna per la Casa bianca… era solo questione di tempo prima che qualcuno chiedesse l’opinione di Clint Eastwood. Questa volta, Clint non si rivolge a una sedia vuota – come fece alla convention repubblicana di Tampa, nel 2012, e infatti a Cleveland non si è visto – ma alla rivista Esquire, in un’intervista, a due voci, rilasciata insieme a suo figlio Scott. Il Sully che Eastwood vorrebbe al posto di Hillary Clinton e Donald Trump è il capitano Chelsey Burnett Sullenberger, pilota della Us Air che, nel 2009, con un miracoloso atterraggio sul fiume Hudson, salvò dalla catastrofe equipaggio e passeggeri di un aereo mandato in avaria da un branco di anatre canadesi.

È anche (interpretato da Tom Hanks) il protagonista del prossimo lavoro del regista di American Sniper, un film che racconta – almeno dal trailer, appena uscito – la storia di come, dopo essere stato celebrato per aver compiuto un atto eroico, Sullenberger finì nei pasticci con la Federal Aviation Administration, accusato di aver agito troppo di testa sua, affidandosi ai propri istinti.

Agire di testa propria, spesso sfidando l’autorità, un’istituzione o un pensiero comune, è il principio fondante dell’(anti)eroe eastwoodiano e della sua politica, che da sempre ha radici nel pensiero libertario, piuttosto che nelle ortodossie repubblicana o democratica. Quindi non stupisce che, nell’intervista a Esquire Eastwood dica che: «Comunque Trump ha toccato un nervo, perché segretamente tutti sono stufi del politically correct. Siamo nel mezzo di una generazione di leccaculo, di senza palle (lui usa il termine pussy, cioè figa; ndr). Tutti camminano sulle uova…. Non puoi fare quello, non puoi fare quell’altro, non puoi parlare così, Trump dice quello che gli viene in mente. A volte è sbagliato… Ma capisco cosa lo motiva, anche se non sono sempre d’accordo con lui».

«Adesso è diventato un razzista per la questione del giudice. È stupido dare un giudizio basato sul fatto che uno ha i genitori messicani. Trump ha detto molte stupidaggini. Le dicono da entrambe le parti. Ma i media stanno facendo un finimondo – è un razzista! Fatevene un cazzo di ragione. Questi sono tempi tristi».

Eastwood chiarisce di non aver dato a Trump il suo endorsment, o di avergli parlato anche se, dovendo scegliere tra lui e Hillary probabilmente voterà per il miliardario newyorkese: «Hillary? Dura ascoltare quella voce per quattro anni. E se continua con il corso attuale non posso votare per lei… Ha dichiarato che intende seguire i passi di Obama».

Nell’intervista, Eastwood ricorda anche l’episodio della sedia, che oggi definisce «sciocco» e che gli è stato ispirato – nel backstage della convention – da una canzone di Neil Diamond (And no one heard at all/ Not even the chair): «Quello è Obama, mi sono detto. Uno che non fa il suo lavoro. Che non va a trattare con il Congresso. Certo, sono dei bastardi pigri. E allora? Tu sei il capo, il presidente della compagnia… far funzionare bene le cose è la sua responsabilità. Come dicevo, questa è una generazione senza palle, nessuno ha voglia di lavorare».

Eastwood torna spesso, nella conversazione, sull’idea di una generazione che manca di carattere o, come dice lui, «di palle». E, naturalmente, il filo del discorso riconduce alla sua biografia e all’esperienza che più ha formato la sua visione del mondo, quella della Grande depressione: «Tutto risale a mio padre. Ricordo quando abbiamo lasciato Redding, nella California settentrionale, per venire a Los Angeles perché lui potesse lavorare presso la pompa di benzina della Standard Oil, all’angolo tra la Pacific Coast Highway e Sunset Boulevard. Sradichi la tua famiglia, la sposti cinquecento miglia perché è l’unico lavoro che c’è. Cosa sarebbe successo se avesse detto non posso? Sarei andato a elemosinare un panino». E qui Eastwood ha un momento di commozione (a ottantasei anni, se lo può permettere), ricordando uno sconosciuto che entrò in giardino chiedendo a sua madre di poterle tagliare la legna. «Non abbiamo soldi» rispose lei. «Non voglio soldi signora. Mi basta un sandwich».

La sofferenza del proletariato bianco su cui Trump ha costruito la sua improbabile ascesa politica, Eastwood l’ha vissuta da bambino e, ben prima di Trump, ha riconosciuto e raccontato l’odierna alienazione di quella fascia di America in alcuni dei suoi film recenti, specialmente Gran Torino e American Sniper.

Se uno può rispondere al suo ragionamento tagliato con l’accetta che la sbruffoneria di Donald Trump non equivale ad «avere le palle», ignorare il lamento di quell’America – perché è un pensiero reazionario – è ignorare il problema in cui il paese si dibatte oggi.