«Non so come curare la vecchiaia» bisbiglia il cowboy Mike Milo al ragazzino che gli fa da aiutante, prima di rivolgersi alla moglie dello sceriffo che gli ha portato da esaminare un cane visibilmente anziano e fragile: «Fategli molta compagnia. Alla sera, magari lasciatelo dormire ai piedi del vostro letto». Un San Francesco improvvisato (più ironicamente lui sostiene di essere stato scambiato per il dottor Doolittle), in giacchino messicano ricamato (per non tradire il suo essere «gringo»), Milo è l’ultima incarnazione di Clint Eastwood. Novantun anni, ancora una volta davanti e dietro alla cinepresa, Eastwood ci dà un film che sgorga con naturale dolcezza dalla vena autoriflessiva che ha marcato molti dei suoi lavori, specialmente i più recenti.

COME il magnificamente buffo, Il corriere, e il capolavoro Gran Torino, Cry Macho è la storia di un uomo che fa i conti con se stesso. Anzi, per essere precisi, Mike Milo quei conti li ha già fatti quando, all’inizio del film, il suo boss (Dwight Yokam) prima lo licenzia e poi gli ordina di andare in Messico e riportargli il figlio teen ager che non ha mai voluto. Liberamente tratto da un romanzo di N. Richard Nash pubblicato nel 1975 e adattato per il grande schermo dallo stesso Nash insieme a Nick Schenk (già autore dello script di Il corriere), Cry Macho è ambientato nel 1979 e apre sul paesaggio e nelle stalle di un grosso ranch del Texas dove Milo, un famoso campione di rodeo fino a quando si è spaccato la schiena in una rovinosa caduta da cavallo, lavora da sempre. In Il corriere Eastwood aveva sottolineato solo in un paio di inquadrature ravvicinate, sul passo affaticato, l’età avanzata del suo cultore di orchidee rare/farfallone con le signore di mezza età, che si trasforma in un corriere della droga.

Qui, quella fatica del corpo è al centro dell’inquadratura (classica nella composizione, come sempre nel cinema eastwoodiano), e del racconto. Milo è troppo vecchio, e troppo scorbutico, persino per Howard Polk (Yokam) che, un giorno, dopo l’ennesimo battibecco e l’ennesimo ritardo, lo manda a casa una volta per tutte. È passato un anno quando Polk si presenta nella casetta monastica in cui Milo ha filosoficamente concluso che finirà i suoi giorni, e lo spedisce oltre confine a rapire Rafo (Eduardo Minett), figlio sconosciuto che divide il suo tempo tra i bassifondi di Città del Messico (spaccio, piccoli furti e lotte di galli) e la Macmansion della mamma dove viene regolarmente picchiato dal fidanzato di turno.

Il ratto del ragazzino, e l’inseguimento molto poco serrato che ne deriva, sono chiaramente un pretesto narrativo. Eastwood non ha nessuna fretta: il detour, il percorso individuale, meglio se su una stradina sterrata (dove svolta quando un’auto di federales appare all’orizzonte), è la cifra distintiva del suo cinema, oltre che dei suoi eroi solitari, anche se oggi si muovono su macchine scassate piuttosto che a cavallo. L’altro stratagemma narrativo è il nome del gallo campione da cui il giovane Rafo è inseparabile, Macho.

È sul senso di quella parola che si gioca – in modo scherzosamente ironico, con Milo che continua a definire l’animale un pollo – l’incontro/scontro tra le due generazioni, tra il vecchio e il ragazzo. E – su un altro piano – il dialogo di Eastwood con il personaggio di se stesso. Un dialogo sempre più complesso, che si fa a tratti commovente, adesso che i famosi «occhi di ghiaccio» (dal titolo italiano di Outlaw Josey Wales, Il texano dagli occhi di ghiaccio) a tratti lasciano trapelare la vulnerabilità di quelli di un bambino.

«QUESTO mi sembra un paesino interessante», annuncia il vecchio cowboy a Rafo, dopo l’ennesima deviazione dalla strada che li porterebbe diritti al confine con gli Stati Uniti. «A casa». Eccetto che si tratta di una casa dove Mike Milo non vuole tornare. Un po’ San Francesco, un po’ il dottor Doolittle, Milo si ferma con Rafo nel piccolo villaggio, povero e polveroso, come tanti nei suoi western. Di giorno insegna al ragazzo a montare cavalli selvaggi («Non puoi nemmeno entrare in Texas se non sei un cowboy»), di notte i due fuggiaschi senza fretta dormono in una chiesetta. Fino a quando una bella vedova, circondata di nipotine, li invita a stare da lei. Alla fine, Mike Milo consegnerà al padre il ragazzino – più saggio di come lo aveva trovato – su un confine sperduto che il vecchio cowboy però non riattraverserà mai. Il suo destino, non quello di un altro cavaliere solitario stagliato contro il tramonto: tra le braccia di una donna, chilometri e chilometri a sud dell’orribile muro di Trump.