Come concepisce il rapporto dell’individuo con i grandi eventi della storia, e qual è il suo personale rapporto con il tempo, il cui ruolo è così centrale nella sua opera?
A mio modo di vedere, l’individuo è in balia della storia. La storia è una macina e l’individuo è uno fra tanti granelli che vengono triturati. I miei personaggi sono spinti avanti dagli avvenimenti: sono semplicemente là, cercano bene o male di vivere la loro vita, ma non si sentono parte di una massa attiva, non si sentono capaci di intervenire e di cambiare le cose, si sentono estranei alla società e provano a tracciare una loro strada. Il mio atteggiamento di fronte alla storia è piuttosto fatalistico, un po’ come quello del generale Kutuzov in Guerra e pace, a cui Tolstoj a un certo punto fa dire che non c’è necessità di fare nulla, i fatti avvengono e la storia va avanti da sé. Forse è un po’ esagerato e magari non sarà proprio così, ma anch’io la vedo in modo simile. Da scrittore, casomai, cerco di afferrare il tempo da una prospettiva esistenziale, a volte magica: il modo in cui uno si volta e subito dietro di sé vede il passato o apre una porta e si ritrova confrontato con la propria storia. I cambiamenti avvengono con rapidità straordinaria, nel giro di poche frasi, una o due, e subito si è ricondotti indietro nel tempo.

Sembra inevitabile porle una domanda sulla caduta del Muro, sebbene le tante rievocazioni dell’anniversario la facciano suonare scontata: lei all’epoca aveva dodici anni, quali sono i suoi ricordi di quel giorno, e essi si accordano con la visione che abbiamo oggi di questo evento storico?
Del giorno in cui il muro è caduto non ho un ricordo particolare. Io ero con la mia famiglia a Lipsia, la televisione era accesa e la notizia dell’apertura del muro passava su un banner continuo. Era piuttosto tardi, di sera. Il giorno dopo, a scuola, c’erano diversi banchi vuoti perché alcuni genitori erano andati con i loro figli a Berlino per vedere cosa stesse succedendo veramente. Nei giorni successivi l’ordine era saltato, non c’erano più lezioni regolari e anche gli insegnanti erano spariti: a Berlino anche loro. Non potrei dire, guardando indietro, di aver avuto la sensazione di un avvenimento sconvolgente. Mio padre era scettico. Si chiedeva cos’altro sarebbe potuto accadere. Anche mia madre era scettica, benché per altri motivi. In qualche modo sperava che la DDR avrebbe introdotto delle riforme, che sarebbe nato qualcosa di simile a un socialismo riformato. Le cose non erano chiare. Certo, sapevamo tutti che il muro esisteva, eravamo anche andati a vederlo col treno; sapevamo che c’era «un’altra parte», a dodici anni cominciavo a prenderne coscienza, ma il significato di quanto stava accadendo non ci era chiaro. Ricordo meglio il periodo precedente, i mesi di settembre e ottobre. Mia madre era attiva in un gruppo di preghiera legato alla chiesa protestante e portava anche noi bambini a quelle che furono poi chiamate le manifestazioni del lunedì di Lipsia. Quello è stato un periodo importante… Si vedeva che qualcosa stava accadendo: le dimostrazioni, decine di migliaia di persone in piazza. Mio padre era preoccupato, diceva che noi bambini non dovevamo andare, temeva quella che chiamava una «soluzione cinese», riferendosi ai fatti di piazza Tienanmen. Faceva parte della Democrazia cristiana – che esisteva anche a est – la cosiddetta «Blockpartei», era attivo politicamente e sapeva che c’erano preparativi per l’eventualità di situazioni d’emergenza, che gli ospedali avevano accumulato scorte di sangue, che sul tetto della stazione di Lipsia era stata installata una mitragliatrice… ma alla fine non successe nulla. La visione corrente in Germania della «rivoluzione pacifica» non mi trova d’accordo: non fu una rivoluzione. Cominciò tutto con le preghiere in piazza, e alla fin fine il sistema è crollato da solo, più per una evoluzione che per una rivoluzione.

In ogni caso, lei paragona spesso, nei suoi romanzi e nei suoi racconti, la realtà tedesca che precede la caduta del muro, al dopo. Quale significato attribuisce a questo confronto, soprattutto nel suo primo romanzo, «Eravamo dei grandissimi»?
La DDR è stata la mia infanzia ed è questo ciò che collego alla sua esistenza. La riunificazione ha coinciso, per me, con l’inizio della pubertà. Non ho fatto mai parte neppure delle organizzazioni giovanili del partito, a differenza di mia sorella che era più grande. Avrei dovuto entrarci l’anno dopo, nel 1990, ma a quel punto era tutto finito. Per me la DDR è ciò che è venuto prima della mia vita cosciente e per questo in Eravamo dei grandissimi ho cercato di rappresentare la visione infantile della realtà prima della riunificazione. Dalla prospettiva del bambino viene la narrazione dei fatti più obiettiva, proprio perché più ingenua, dell’infanzia come la si viveva all’est: cosa vedevamo, com’erano gli adulti, che odore c’era nell’aria, cosa succedeva, come si parlava. La visione infantile conferisce a ciò che viene descritto un’ingenuità e una poesia immediate, libere dal filtro della riflessione.

Quale significato hanno i tanti sogni, le visioni, le fantasie che costellano le sue opere? Come si combina questa dimensione onirica con la superficie realistica dei suoi racconti e dei suoi romanzi?
Nei miei testi, la realtà può sempre trasformarsi in sogno e viceversa; del resto il sogno fa pur sempre parte della realtà. Per me una narrazione puramente realistica è inimmaginabile. Nel primo romanzo, ma ancora di più in quello successivo e nei racconti, c’è una continua confusione dei due piani così che spesso non si capisce più bene dove si è, se nella realtà o nel sogno, se siamo nella pura immaginazione o nella realtà. C’è un racconto in Il silenzio dei satelliti in cui, entrano in gioco le voci del futuro: due donne si incontrano alla stazione e poi si congedano, ma improvvisamente, nella scena dell’addio, si percepiscono le parole del prossimo incontro. Sogno, realtà, immaginazione scivolano l’uno nell’altra e si sovrappongono.

Dalle sue opere sono stati tratti e continuano a venire ricavati film e serie televisive. Come ritiene che questo rapporto con i media abbia influito sulla letteratura tedesca contemporanea e sulla letteratura in generale?
La letteratura si introduce nei media portandovi la lentezza. La serie televisiva non può avere il respiro lungo del romanzo e non conosce la dimensione epica, ma la letteratura può contribuire a darle un passo diverso avvicinandola alla dimensione lenta e riflessiva del romanzo. Certo, il fenomeno è almeno relativamente, nuovo. Chi finanzierebbe e chi girerebbe oggi un film come Rocco e i suoi fratelli? La traduzione televisiva di un romanzo è un’opportunità, ma non priva di problemi. Proprio adesso sto cercando di trarre dal mio secondo romanzo, Im Stein, la sceneggiatura di una serie televisiva in dieci puntate. La letteratura è lenta: chi legge un romanzo o una serie di racconti deve prendersi il tempo di farlo e, in qualche modo, sperimenta un rallentamento del tempo, mentre le serie frammentano sempre di più: a una puntata di quarantacinque minuti segue la prossima e così via.

In Italia la sua opera è stata accolta con grande interesse. «Eravamo dei grandissimi» è stato letto anche come un romanzo pasoliniano. È un caso o la sua opera è stata realmente influenzata dalla letteratura italiana?
Soprattutto dal neorealismo: l’ho scoperto da bambino, dopo la riunificazione. C’era un cinema a Lipsia che improvvisamente ci permise di vedere De Sica, Fellini, Visconti, Pasolini. Li ho visti tutti, restavo sbalordito. Mia nonna, che amava Pasolini, a un certo punto si mise a studiare l’italiano per poterlo leggere in lingua. E lo stesso feci io. Accattone è stato un film importante per me, e naturalmente anche i romanzi. Poi ho scoperto Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, un bellissimo libro e anche un bellissimo film, triste, elegiaco. E Curzio Malaparte, La pelle: un romanzo straordinario, che scoprii grazie a mia nonna. Avrò avuto 16-17 anni quando mi chiese se lo avessi mai letto: ma come – mi dissi – una donna moderna sì, ma di settant’anni, legge un libro del genere, pieno di sesso, violenza e atti orribili, e me lo consiglia pure? Per me quella lettura fu un fatto sensazionale: era apparsa in una bella edizione e anche in una buona traduzione che rendeva bene la potenza quasi biblica del linguaggio. Inoltre leggevo i libri di autori italiani che aveva mio padre e che venivano pubblicati anche prima della riunificazione: Moravia, Morante, Pasolini. Non lessi mai, però, Kaputt! – lì c’erano troppi nazisti e nella DDR non sarebbe mai potuto apparire.

Lei crede si possa parlare, ormai, di una letteratura europea, o addirittura di una letteratura globale? Noi ci siamo in qualche modo congedati dall’idea di «letteratura nazionale» e leggiamo autori di paesi di cui 30 o 40 anni fa avevamo un’idea molto approssimativa o addirittura nulla. Quanto è importante questo stato di cose per lei?
Mi fa piacere essere letto dappertutto, ma la letteratura è sempre stata legata al concetto di letteratura nazione: ci si muoveva e si scriveva in un determinato contesto culturale. Non so se ora sia così diverso. I miei romanzi si svolgono a Lipsia, o all’est, o in Germania e per me è importante che abbiano questo legame. Non sono un autore internazionale. Sono un essere umano internazionale, ma come autore resto legato al contesto che conosco. Non riuscirei mai a pensare, andando da qualche parte: qui potrei ambientare un romanzo o un racconto. Resto legato al vero e proprio senso della parola Heimat che in italiano si traduce male come «patria». Certo che esiste una letteratura europea, ma non sono in grado di darne un vero giudizio. So invece che mi considero uno scrittore tedesco; non solo, ma il legame con il mio luogo di provenienza è importante: in ogni libro, in ogni romanzo, anche quando l’azione si svolge in Serbia o in Croazia, salta sempre fuori la città di Lipsia. Per raccontare il mondo posso farlo anche solo da Lipsia.

Qui la presentazione di Clemens Meyer firmata da Luca Crescenzi
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