Una passeggiata con Claudio Gobbi (Ancona 1971, vive e lavora tra Berlino e l’Italia) sulla rupe Atenea, il punto più alto dell’antica Akragas (l’attuale Agrigento) nel Parco Archeologico e Paesaggistico Valle dei Templi, lasciandoci alle spalle il tempio della Concordia per giungere al tempio di Giunone. Di grande ispirazione per il fotografo è stato proprio il dipinto a olio Junotempel in Agrigent di Caspar David Friedrich conservato al Museum für Kunst und Kulturgeschichte di Dortmund. È lì che lo ha fotografato creando un finto set. Questo dipinto ottocentesco è la fonte di una serie di riflessioni che riguardano anche la musealizzazione del sito archeologico ad opera dell’architetto Franco Minissi (1919-1996) oltre che la fotografia stessa come dispositivo per indagare le possibilità della rappresentazione. Temi intorno a cui si è sviluppato il progetto Claudio Gobbi. La visione trasparente (a cura di Giusi Diana), vincitore di Strategia Fotografia 2023, il bando promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, realizzato da ruber.contemporanea in collaborazione con il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi di Agrigento.

Il corpus di 25 opere fotografiche analogiche che entreranno nelle collezioni museali è esposto nelle sale del Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo» di Agrigento (fino all’11 ottobre), accompagnato dal catalogo pubblicato da Silvana Editoriale. Immagini che dialogano con il museo «instaurando inediti scambi semantici con i reperti esposti nel Museo, come nel caso del Torso di Guerriero (480-475 a.C.)», come scrive la curatrice. «Inoltre il reimpiego di fotografie d’archivio trovate o found photography, che è alla base della ricerca di Gobbi, evidenzia la natura polisemica delle immagini, che sottratte all’utilizzo documentario originario svelano contenuti semantici latenti, aumentando il proprio potere evocativo.»

«La visione trasparente» è un’esplorazione della fotografia soprattutto nel dialogo con l’archeologia e il museo…
È la prima volta che mi confronto con l’archeologia. Sono più abituato al dialogo con l’architettura, ma in questo caso il progetto interseca entrambe, sia i contenuti che il contenitore, rappresentato dall’architettura del museo, inaugurato nel 1967, progettato da Franco Minissi, un architetto che ha lavorato molto in Sicilia, a Roma e in Africa ma è poco documentato. «La visione trasparente», in realtà, nasce da un altro stimolo visivo che è stata la scoperta, alcuni anni fa, del dipinto Junotempel in Agrigent di Caspar David Friedrich. Un’opera che costituisce un’anomalia dal punto di vista storico e autoriale, perché oltre a essere l’unico dipinto che non riguarda i territori dove Friedrich è vissuto e che ha sempre rappresentato, non essendo lui mai stato né in Italia né in Sicilia ha dato vita a dubbi sulla sua paternità. L’interessante coincidenza è che è datato «dal 1826», cioè proprio negli anni in cui è stata inventata la fotografia. Infatti, la prima fotografia di Niépce è del 1826. Insieme alla curatrice Giusi Diana abbiamo deciso di partire proprio da quest’immagine del tempio di Giunone, usandola come una sorta di prologo per poi concentrarci sui contenuti di architettura del museo. Oltre che per la costruzione del museo, gli anni ’60 sono stati un momento molto importante per la trasformazione della valle stessa con l’illuminazione artificiale dei templi che cessavano di essere un luogo buio e rappresentabile solo alla luce naturale, offrendo un’ulteriore possibilità di rappresentazione fotografica e non solo.

Da La visione trasparente, foto di Claudio Gobbi (courtesy Archivio Museo Archelogico Regionale Pietro Griffo)

Un altro dialogo è quello con le foto provenienti da diversi fondi archivistici, tra cui l’archivio stesso del Museo Archeologico Regionale «Pietro Griffo» e il fondo di Franco Minissi conservato all’Archivio di Stato di Roma…
Tra gli archivi c’è anche l’Akademische Kunstmuseum di Bonn che conserva la copia originale e le fotografie del Kouros. Come in altri miei progetti, in particolare quello sulle chiese armene (la monografia Arménie Ville edita da Hatje Cantz è stata nominata per il Deutsche Bourse Photography Prize 2016 – ndR), anche qui l’idea è di rappresentare dei soggetti in modo atemporale, abbattendo in fotografia un’idea univoca di tempo. Sento questo tema molto vicino alla mia generazione che è cresciuta con la fotografia analogica, ma negli ultimi vent’anni si è ritrovata a dover affrontare professionalmente e artisticamente la grande trasformazione del passaggio al digitale. Ho l’impressione che con noi finisca l’idea tradizionale di una fotografia in cui l’autore guarda le cose unicamente con il sguardo e la sua esperienza, collegata anche a un’idea di stile. Credo che dalla mia generazione in poi si sia sviluppata un’idea di fotografia in cui gli autori non lavorano mai in un solo modo e usano più media, linguaggi e anche l’archivio senza avere il bisogno di «marchiare» le proprie fotografie con il proprio stile che le renda riconoscibili. Questo anche per il fatto che siamo molto più inondati di stimoli. Viviamo quotidianamente immersi dalle immagini, noi stessi ne produciamo tantissime però quelle che rimangono sono poche. In particolare l’idea di lavorare con gli archivi è importante perché ci dà la possibilità di vedere quello che è stato già fatto, permettendoci di capire cosa veramente possiamo aggiungere o come valorizzare ciò che è già esistente.

La tua fotografia del tempio di Giunone è emblematica: hai tagliato l’immagine in due, lasciando una parte virata in seppia e l’altra a colori. Due momenti diversi in un tempo lungo…
Ho usato questo approccio perché mi interessava riflettere su come erano cambiate le possibilità di rappresentazione dei templi, con la loro musealizzazione parallelamente alla costruzione del museo.
Le immagini sono realizzate come coppia ma provengono dalla stessa foto scattata in un tempo lungo di diverse ore e poi tagliata in due, con le parti riunite grazie al digitale. Una è presentata come se fosse una foto d’epoca, quindi potrebbe rappresentare quasi una sorta di falsificazione, l’altra invece mostra la presenza della luce artificiale che illumina il tempio perciò è inevitabilmente databile dagli anni Sessanta in poi. L’unione di due immagini tagliate che alla fine ne costituiscono una sola porta a ragionare sulle possibilità di rappresentazione della fotografia come medium, non più come immagine singola fissa che rappresenta un momento. Vuole proprio scardinare quest’idea della fotografia come qualcosa di collocato in un momento specifico.

Un’immagine iconica è quella in cui c’è un riferimento immaginifico all’obiettivo della macchina fotografica…
È stata un’apparizione nella sala del museo dedicata a Gela, storicamente legata ad Agrigento, dove sono esposte delle fotografie. Nell’allestimento dell’epoca che è rimasto così com’era originariamente, con i vetri che appaiono come filtri caldi color marrone che sembrano invecchiare le foto, c’è la volontà dell’architetto di portare attraverso le fotografie i reperti di Gela nel museo di Agrigento. Sin dai primi giorni avevo notato quell’oggetto che mi aveva ricordato immediatamente l’obiettivo di una macchina fotografica. L’archeologa Donatella Mangione mi ha spiegato che si tratta del fondo di un vaso greco. Oltre al fatto che è bucato e ha l’iscrizione circolare con il nome di Antifemo, fondatore della città di Gela, si è aggiunto il riflesso del pavimento bianco sul vetro di protezione della fotografia che sembra quasi un fascio di luce che passa attraverso quest’obiettivo che in realtà è un vaso. Mi è parsa un’immagine particolarmente efficace e iconica anche per continuare a riflettere sulla fotografia in sé come atto del vedere. Una riflessione che riguarda anche altre immagini, tra cui la testa della statua del Talamone con la fasciatura all’altezza degli occhi e il Tubo Fittile aniconico che serviva per comunicare con le divinità ctonie. Tutto il progetto, poi, è attraversato dalla tensione tra astrazione e figurazione.