A commento delle recenti elezioni in Ecuador, la teorica e militante femminista latinoamericana Luciana Cadahia si è chiesta da quando la razza, la classe e il genere hanno smesso di costituire assi attorno alle quali articolare e ampliare le lotte di emancipazione popolare, per trasformarsi in armi del neoliberalismo per disarticolarle. Il riferimento è alle dinamiche che hanno condotto la leadership indigenista a boicottare il secondo turno delle presidenziali, agevolando così il cammino della destra di Guillermo Lasso contro il candidato socialista Andrés Arauz.

Nonostante l’apparente perifericità del contesto ecuadoriano, la domanda posta dalla Cadahia solleva nodi politici che interrogano il pensiero e la pratica politica progressista di ogni latitudine. Per tutta la durata del Novecento infatti, e segnatamente a partire dalla seconda metà del secolo, le lotte di classe e le battaglie per l’emancipazione razziale e femminile si sono svolte in relativa sintonia, fino ad arrivare a costituire un tutt’uno in diversi casi indistinguibile, come ad esempio nelle rivendicazioni delle comunità afroamericane degli Usa. L’egemonia neoliberale, al contrario, ha potuto affermarsi anche attraverso la disarticolazione di questo insieme di rivendicazioni e le risposte selettive ad ognuna di esse che i gruppi dominanti hanno saputo elaborare.

Secondo l’analisi di Nancy Fraser, a partire da questa tattica disarticolatoria ha preso corpo un neoliberalismo progressista che ha costituito la cifra egemonica della nostra epoca. Davanti all’offensiva neoliberale su questo fronte, il pensiero progressista ha reagito di conserva, ha aderito alle pieghe del discorso dominante anziché contrastarlo a fondo. Ogni giorno possiamo assistere in rete ad un proliferare di nuove campagne lanciate dall’upper middle class progressista di sicuro scarso impatto propagandistico di massa, finalizzate alla distinzione più che all’emancipazione, secondo una logica già smascherata da Bourdieu.

Volendo sintetizzare, il pensiero progressista ha preso a teorizzare la distinzione anziché praticare l’emancipazione. Peggio ovviamente fanno quelle frange caricaturali della sinistra che reagiscono al carattere complesso della post-modernità inventandosi (o meglio, ricopiando dal pensiero reazionario) gerarchie di priorità e presunte contraddizioni tra diritti sociali e diritti civili, illudendosi di lisciare il pelo al «popolo», del quale si finisce così per restituire un’immagine più abbrutita più che idealizzata. Una maniera come un’altra di rimarcare la propria subalternità al discorso dominante.

Al contrario, la storia dei movimenti e delle conquiste di emancipazione ci parla di tutt’altro, e cioè di un’estrema contaminazione, che giunge fino alla fusione, tra i vari fronti del conflitto sociale. È nella pratica politica, e cioè nella militanza, che avviene questa fusione. Il movimento Black lives matter è da questo punto di vista esemplare: nella militanza all’interno del movimento le varie istanze razziali, di genere e di classe trovano una sintesi pratica.

La militanza è l’atto anti-neoliberale per eccellenza: sia per come contribuisce, con la sua carica di generosità, a superare l’individualismo imperante nella nostra epoca; sia per come supera nella pratica le trappole del discorso neoliberale. Dalla storia ci vengono molti esempi in questo senso. Nei movimenti di liberazione coloniale, nei grandi scioperi del sud degli Stati Uniti, nella lotta di classe delle nostre campagne, solo per citare alcuni di essi, i motivi del conflitto erano tutti presenti ed al contempo amalgamati nella prassi militante.

La militanza unisce ciò che il particolarismo neoliberale divide. Ripartire dalla militanza è dunque necessario e possibile. A patto di non idealizzare la militanza classica, la quale ha spesso riprodotto al proprio interno le stesse logiche e stratificazioni che contraddistinguevano le società nelle quali prendeva corpo: la prevalenza del notabile locale sul proletario nella direzione della tradizionale sezione socialista; la donna che sacrifica le proprie potenzialità nell’arena pubblica a favore del compagno; il sospetto con cui l’avanguardia-tipo del nord Italia guarda alle mobilitazioni della nuova classe operaia di origine meridionale ai tempi del miracolo economico.

Al giorno d’oggi, paradossalmente, è spesso l’apporto dei subalterni ad essere espunto dalla militanza progressista, ridotta a gesto estetico appannaggio dei pochi che hanno tempo e strumenti per praticarla. Rilanciare la militanza come supremo atto di insubordinazione alla logica politica neoliberale implica allo stesso tempo una riforma delle forme e dei tempi della militanza, per renderla un’esperienza realmente fruibile a tutte le classi, tutti i generi e tutte le provenienze geografiche e culturali.