Nel 1977 Clarice Lispector venne ricoverata in ospedale per un tumore senza scampo. In quei mesi stava lavorando a un nuovo libro, Un soffio di vita (ora tradotto da Roberto Francavilla, Adelphi, pp. 193, euro 16,00), che sarebbe uscito grazie alle cure editoriali di Olga Borelli, amica-assistente, testimone della sofferenza nella malattia e depositaria di quest’ultimo «slancio doloroso impossibile da trattenere». Un soffio di vita viene concepito sul limitare del tempo concesso a un essere umano. La sua liminarità, il suo affacciarsi sulla morte, appartengono alle fondamenta della sua struttura. La dipartita imminente di Lispector ne condiziona la parola, il respiro, rendendolo un’opera postuma nell’atto del suo stesso farsi.

«Vivere è una specie di follia che la morte commette. Che vivano i morti perché viviamo in loro» scrive una voce chiamata Autore all’inizio del testo. La «soglia estrema», come ci ricorda Bachtin, rappresenta una condizione immobile, un tempo privo della durata perché staccato dal flusso normale del tempo biografico. Il tempo sulla soglia è il tempo della simultaneità – simile in questo al tempo del sogno – e della chiaroveggenza, dal momento che soltanto nella pura simultaneità può rivelarsi il vero significato di ciò che è stato, che è e che sarà.

Quasi nessun fatto
Guardare la vita dalla sua soglia estrema implica un passo di lato, scostarsi dal flusso ininterrotto del mondo e osservarlo come un universo nuovo, sospeso, disperso in una miriade di frammenti di significato. Non succede quasi nulla nelle duecento pagine di Un soffio di vita, o meglio, nulla che si possa inscrivere nel registro storico degli accadimenti. Tutto il testo ruota intorno a un dialogo ininterrotto tra Autore e il suo personaggio Ângela Pralini.

Ângela Pralini non sa di essere stata creata da Autore, così come Autore non sa di essere un personaggio creato da Lispector in un continuo gioco di sdoppiamenti in cui la parola spesso si fa sfuggente, scivolosa, volutamente ambigua. Anche Ângela Pralini, così come Autore, compone universi di linguaggio, facendo di questo gesto demiurgico un atto di sostanziale autocoscienza. Ângela Pralini esiste solo e soltanto in forza della propria scrittura. La sua presenza al mondo è un puro atto di nominazione.

Come Adamo nella Genesi dà un nome agli animali che Dio gli pone di fronte e nominandoli struttura se stesso, così Ângela, dando un nome a ciò che la circonda, si mostra al lettore in termini di pura autorialità, dichiarando la propria radicale, incontrovertibile esistenza. Poco importa che Autore, non visto, commenti ogni suo singolo pensiero o gesto, poco importa che lei a volte ne senta quasi il respiro accanto a sé («mi avrà scambiato per Dio?» si chiede Autore), Ângela Pralini incurante di essere agita agisce a sua volta, vive, respira, in un’inconsapevole rivendicazione della propria autonomia di personaggio rispetto al gesto della scrittura che l’ha inventata e che rinnova, a ogni pagina, la sua invenzione («Chi crea la mia vita? Sento che qualcuno comanda in me e dà forma al mio destino. Come se qualcuno mi creasse. Però sono anche libera e non ubbidisco agli ordini»).

Ângela Pralini non scrive però di donne o di uomini come fa il suo Autore, ma di un mondo di oggetti. Storia delle cose è il libro a cui sta lavorando, romanzo nel romanzo in cui emerge prepotentemente uno dei temi più cari a Lispector: il linguaggio colto nel tentativo illusorio di afferrare la cosa, di penetrare – senza mai riuscirvi – il nocciolo del reale.

Storia delle cose è un libro di pura descrizione del mondo (i suoi capitoli si chiamano Giradischi, Orologio, Inferriata, Bidone della pattumiera…) esattamente come Un soffio di vita è un libro di pura descrizione dell’Io. Ma come fare per imbrigliare la superficie del Mondo-Io in un libro? Come fare per restituire la misteriosa rilevanza di «Giradischi» e «Inferriata» (così come di «Autore» e di «Ângela») sulla pagina?

Una logica evocativa
Nel libro di Ângela Pralini – nel libro di Clarice Lispector – le frasi sono spesso giustapposte una all’altra secondo una pura logica evocativa. Sono senza concatenazione consequenziale, a illuminare una foresta di «errori» e di neologismi su cui spesso il lettore si trova a inciampare («pietrale», «durobila» alcune tra le soluzioni più brillanti del traduttore Roberto Francavilla).
Un soffio di vita non è un romanzo semplice – lo dichiara Autore fin dal suo esordio – è invece il manifestarsi di una condizione onirica del linguaggio a cui è possibile accostarsi soltanto condividendone le logiche iniziatiche. Solo accettando l’incongruenza strutturale della sua voce è possibile infatti accogliere in pieno la presenza sovrasignificante dei suoi oggetti. Solo accettando una completa assenza di trama o di costruzione narrativa è possibile lasciarsi andare a una lettura come puro incantamento visionario. «Il tempo non esiste. Ciò che chiamiamo tempo è il movimento di evoluzione delle cose, ma il tempo in sé non esiste».