L’uomo, non più giovane, si veste in silenzio, chiude la valigia di gusto retrò, e posando la fede sul tavolo dice alla donna che lo guarda sigaretta in mano e bigodini in testa: «Me ne vado». Sono le prime sequenze del nuovo film di Aki Kaurismaki, in concorso all’ultima Berlinale dove ha vinto il premio per la miglior regia – premiazione contestata dai più che aspettavano invece l’Orso d’oro. The Other Side of Hope, L’altro volto della speranza, da oggi in sala (distribuisce Cinema di Valerio De Paolis) torna sulla relazione che era già al centro del precedente Miracolo a Le Havre, quella cioè tra l’Europa e i migranti che arrivano qui costretti dai dolorosi vissuti di guerra, miseria, violenza. E lo fa nello stile di Kaurismaki, in quell’oscillazione – suggerita già dal titolo – tra il mondo come è e il mondo come lo vorremmo, il «suo» mondo di regista in cui il surreale, il fiabesco mettono a nudo con precisione i paradossi della realtà – che è poi la forza del cinema, la sua potenza politica e di consapevolezza.

 
È in questa «distanza» che Kaurismaki negli anni ha inventato una Finlandia fuori dal tempo, un paesaggio interiore popolato da figure stralunate, buffi sognatori, giocatori di azzardo, musicisti rock e folk al centro delle sue inquadrature limpide che arrivano all’essenza delle cose. Niente è reale ma tutto lo è, per sbattere fuori un richiedente asilo e trasformarlo in un criminale, basta decidere che il Paese da cui proviene non è pericoloso per chi lo abita, persino se la sua città è Aleppo e le immagini in diretta televisiva la mostrano mentre viene distrutta dalle bombe. Da lì arriva Khaled (Sherwan Haji), materializzandosi sporchissimo nella notte a Helsinki con la fiducia nelle istituzioni del Paese in cui è sbarcato e la speranza di ritrovare la sorella Miriam perduta sul confine ungherese durante l’ennesimo attacco della polizia.

 

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Il marinaio che lo ha nascosto sul cargo dove era salito per caso gli aveva detto che la Finlandia è un paese aperto, che accoglie i migranti: «welcome» lo saluta il poliziotto. Però i racconti terribili che fa del suo viaggio dopo che un razzo – Isis, Russia, Usa, Nato poco importa – gli ha distrutto la casa e ucciso la famiglia non sono sufficienti a fargli avere l’asilo politico. Khaled fugge e diviene un «clandestino» ma sulla sua strada si imbatte nell’uomo che ha lasciato la moglie, Wikstrom (Sakari Kuosmanen), commesso viaggiatore che ha ceduto la sua attività per rilevare un ristorante coi soldi vinti in una notte di poker.
Il posto è assurdo, il personale totalmente inadeguato, gli affari vanno male a parte la birra.«Si beve molto quando si sta male, ancora di più se si è felici» commenta impassibile un’amica di Wikstrom – Kati Outinen,la splendida icona del regista finlandese che come sempre, pure se in piccoli camei, ritrova la sua «famiglia» cinematografica.

 
Wikstrom e Khaled si scontrano, fanno a pugni, poi il ragazzo entra in quel piccolo universo «altro» dove le cose vanno diversamente, dove esistono aiuto, comprensione, affetto: il «lato opposto» di istituzioni, poliziotti, politici, naziskin che brandiscono coltelli contro «i cammellieri», un’utopia di colori, luci, oggetti anacronistici contro l’indifferenza del mondo. Sarà per questo che gli ispettori bocciano cucina e sala del locale dicendo che non sono conformi alle regole: un poster di Jimi Hendrix, un juke-box, un cagnetto pure lui clandestino tra cucine e pentole, il tentativo goffo di preparare sushi o cucina fusion per tornare infine a aringa e patate…

 
Kaurismaki sa magnificamente guardare il nostro tempo continuando a inventare un’immagine che anche nel confronto con un tema di «attualità» sorprende lo sguardo. Senza cadere nei luoghi comuni, nella retorica del miserabilismo e soprattutto senza mettere da parte il cinema, la sua poetica illumina i paradossi del presente con umorismo, comicità, sentimento restituendo un’individualità a chi, come Khaled, sembra destinato a scomparire nelle statistiche. Non ci sono tante spiegazioni se non che da qualche parte esistono delle persone che si aiutano come possono. Sono scelte piccole, prive di enfasi, che pure diventano gesti di grande rottura rispetto all’indifferenza, alle assurdità di confini, trattati politici, interessi dei potenti.

 
Lì, nella sala scassata del ristorante La pinta d’oro una rete di «solidarietà» diventa possibile, anche se questo non significa che tutto il male sparisca. È un primo gesto, qualcosa da cui ripartire: l’altro lato di una speranza che è quasi come una rivoluzione.