Le «prime solitudini» sono le paure, la spavalderia, la fragilità, l’entusiasmo, i sussulti del cuore che attraversano le giornate di Tessa, Anaïs, Catia, Manon, Elia, Hugo, Clément, adolescenti di un liceo nella periferia di Parigi. L’infanzia, i ricordi tristi e quelli dolci, le famiglie sfasciate, i genitori che non si parlano più, o che non hanno mai conosciuto. Le domande e i sogni sul futuro, l’amicizia, l’amore. La scuola che è dove tutto accade, il luogo in cui si ritrovano, lo spazio della loro narrazione. Cosa è la solitudine? C’è chi la ostenta come una conquista, chi la subisce. Lo schermo del telefonino, la cena con la mamma senza parlare, i compiti. E poi? Tutto comincia da un progetto di film con gli studenti del corso di cinema che Claire Simon trasforma in un racconto dell’adolescenza.

 

 

Lo spazio è quello della parola in cui reciprocamente prendono vita sentimenti e vissuti di ciascuno, un flusso che scorre con irruenza, che diviene scoperta di sé e dell’altro. Prèmieres solitudes, il nuovo film della regista francese, (era in anteprima alla scorsa Berlinale) esplora l’universo di quell’età di passaggio lasciando i suoi protagonisti liberi di essere sé stessi, contro gli stereotipi dell’adolescenza a cui invece restituisce la singolarità della rappresentazione. Quei dialoghi vivi, che scorrono in ogni fotogramma rivelano mondi diversi e sofferenze e gioie comuni, i legami familiari soprattutto che diventano la lente attraverso la quale osservare il presente e le possibilità del futuro.

 

 

Mettere davanti alla macchina da presa dei ragazzi è sempre rischioso, specie oggi con la proliferazione delle immagini, dell’autorappresentazione social, di un modo di esibirsi che cerca di rispondere a modelli più o meno vincenti. Lo sguardo di Claire Simon punta invece sulla relazione e dentro a questa coglie epifanie segrete, la sfera intima e il sentimento del presente. Istanti di vita e di cinema.

 

 

 

Come hai organizzato le riprese? Immagino che la cosa più difficile sia stata trovare il tono giusto per creare una relazione coi ragazzi davanti alla macchina da presa.

L’idea iniziale discussa con la professoressa di lettere e cinema era quella di realizzare con gli allievi di cinema un cortometraggio di finzione. Però facevo fatica a pensarlo senza conoscerli così gli ho proposto di lavorare su un’esperienza comune a me e a loro al di là della differenza di età: la solitudine. Siamo partiti da quello che mi hanno raccontato, ho fatto alcune interviste «preparatorie» con due di loro per volta a cui però anche gli altri mi hanno chiesto di partecipare. Erano affascinati dalla macchina da presa, volevano tutti intervenire e parlavano molto liberamente di ciò che vivevano ogni giorno. Ho montato questa giornata di riprese e il risultato mi ha molto colpita: rispondendo alle mie domande sulla solitudine parlavano quasi subito delle famiglie, quasi tutte disgregate, e delle paure che questa condizione provocava in loro. Al tempo stesso però dimostravano molto entusiasmo verso la scuola, gli amici, per il cinema, per l’amore che stavano scoprendo. E ripetevano spesso di essere spaventati dal futuro. Così gli ho proposto di cominciare il nostro lavoro da quel materiale per farne un film. Gli ho chiesto di riprendere ciò che avevano detto, di discuterne in piccoli gruppi di due o di tre persone mentre io avrei scelto quelli che partecipavano a ogni scena, gli attori – anche se non c’è stato nessun casting, piuttosto ho provato a scoprire le caratteristiche di ognuno – e i luoghi nel liceo dove avrei girato.

 

 

In effetti quasi tutti i ragazzi parlano di una condizione familiare molto difficile, e sembrano trovare l’energia per contrastarla nella confidenza che li unisce.

Loro tendono a rendere tutto più nero ma è vero che specie alcuni vivono in situazioni davvero dure. Ripetono sempre che le loro famiglie sono rovinate, i padri sono spariti, o non parlano con le madri, eppure come dice una di loro vogliono anche sognare. L’amore per esempio. Come crederci in un contesto familiare distrutto? Ne abbiamo parlato molto, uno dei ragazzi era innamoratissimo della fidanzata. Altre ragazze desiderano da grandi avere dei figli. Ci sono momenti molto belli, come quando verso la fine una delle ragazze dice guardando il cielo: «Non è possibile che ci siamo solo noi». A volte senza saperlo ci portano dentro alla Storia come quando la ragazza cambogiana parla della madre fuggita dal suo Paese dopo avere perso tutti i suoi familiari, e il riferimento è ai massacri di Pol Pot. La scuola è lo spazio che li tiene insieme e li sostiene nel confronto con le situazioni complicate che attraversano senza molto aiuto.

 

È per questo che il film, a parte qualche breve momento, rimane sempre dentro alle mura scolastiche?

In realtà avevo anche pensato di seguire qualcuno nelle vacanze ma poi non ha funzionato. Non avevano mai tempo fuori delle scuola…Ci voleva un contesto, che era appunto quello del liceo, forse perché si sentivano obbligati, o perché lì era lo spazio della nostra relazione: un luogo pubblico, il liceo, al cui interno si era creata una comunità di studenti dove anche la sfera più intima poteva manifestarsi.
«Premières solitudes» è un film sulla parola, ogni dialogo rivela qualcosa dell’adolescenza, della realtà di oggi ma senza seguire dei modelli obbligati, con grande libertà.
Ho sempre escluso l’uso dell’intervista proprio perché per me la parola è fondamentale, il dialogo, anche il monologo sono la base della rapporto con me ma soprattutto indicano un cammino fatto insieme da tutti loro che è fondamentale: conquistare cioè la capacità di ascoltarsi, di far circolare la parola tra due persone che si vedono, che fanno della reciprocità un progetto, che riescono a stare nello spazio dell’altro. È l’opposto di quel cinema documentario molto brutto che utilizza l’interrogatorio.

 

È un po’ il contrario anche di quando accade nella rappresentazione, o autorappresentazione, degli adolescenti sui sui social.
I dialoghi tra i ragazzi, che sono anche il lato più di finzione del film, hanno preso forma davanti alla macchina da presa, fino a quel momento nessuno di loro aveva mai parlato così apertamente di sé e della propria vita. Lo hanno fatto con passione e con sincerità anche perché non potevano imbrogliare i loro interlocutori che erano l’amico o il compagno di classe. A differenza di quanto accade sui social dove si deve esibire un «profilo» fantastico in una sfida continua per non essere sopraffatti, presi in giro, aggrediti, in questa situazione ognuno di loro poteva mostrare i propri sentimenti e le debolezze, le lacrime – come accade in una conversazione tra due ragazze e un ragazzo – i dubbi, le ansie senza doversi conformare a un modello. Tutti sono ragazzi delle periferie ma nessuno parla della banlieue, quello che li interessa è pensare a cosa accadrà di lì a qualche anno, a come sarà il futuro.

 

Stai lavorando a un altro film ambientato a Lussas, nell’Ardeche, di cosa si tratta?
Per ora siamo fermi, abbiamo problemi di budget. Più che come un film lo penso come una serie televisiva che ha al centro le attività di Tenk la piattaforma lanciata dal festival Les Etats généraux du film documentaire e sul festival stesso. Lussas è una cittadina di agricoltori e di produttori di vino ma è anche laddove da quasi trent’anni ci sono Les Etats généraux du film documentaire che l’hanno resa un riferimento per i documentaristi nel mondo. C’è una videoteca ricchissima, ci sono sale di montaggio, società di produzione, di distribuzione,strutture che lavorano tutto l’anno. Mi interessava esplorare il rapporto tra questi due mondi, ho molto girato e tanti personaggi che esprimono aspetti interessanti di questa realtà; per questo mi piacerebbe lavorare su una narrazione più estesa