Claire Fontaine – la nota artista collettiva nata a Parigi nel 2004 e ispirata nel nome al ready-made più famoso di Duchamp e a una marca di quaderni francesi – ha vinto la XXI edizione del Premio Ermanno Casoli a cura di Marcello Smarrelli. Un premio nato in memoria del fondatore dell’azienda Elica, da sempre attento al ruolo strategico dell’arte contemporanea nella formazione delle nuove generazioni e degli stessi lavoratori. A Fabriano, sede dell’azienda, è stata inaugurata l’opera Il personale che rimanda al famoso slogan di Carol Hanisch Il personale è politico, chiave di volta della radicalizzazione dei movimenti femministi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Il led di Claire Fontaine attualizza questo concetto ribadendo che oggi più che mai non esiste una divisione tra sfera privata e sfera pubblica, tra dentro e fuori, tra vita quotidiana e la dimensione sociale e politica del vivere collettivo.

È STATO IL MOVIMENTO femminista, in effetti, a insegnarci come la questione di genere, e dei rapporti di potere, fosse decisiva per ribaltare le radici patriarcali dello stesso movimento operaio e della cultura marxista.

Se, insomma, il tuo compagno è operaio sfruttato in fabbrica e padrone sfruttatore a casa e sotto le lenzuola, questa è una questione politica la cui soluzione non è rimandabile se davvero si vuole trasformare lo stato di cose esistente. Prendere coscienza della propria oppressione – che passa attraverso l’interiorizzazione di una immagina del femminile costruita dal maschile a proprio uso e consumo e per il proprio piacere, proprio così come il colonizzato è il risultato di un costrutto culturale e politico del colonizzatore –, è il primo e indispensabile passo per avviare un processo di liberazione.
Questo hanno insegnato i gruppi di autocoscienza femministi degli anni Settanta in cui discutere di sesso, lavoro domestico e di cura – fondamentale intorno alla questione del salario per il lavoro domestico fu l’attività del Collettivo Internazionale Femminista di Padova ‒, gravidanza e aborto, significava porre sul tavolo una serie di questioni che si sarebbero rivelate man mano sempre più all’ordine del giorno.

OGGI NON È FORSE VERO che la sofferenza sui luoghi di lavoro, le discriminazioni di genere, la tossicità delle relazioni, i femminicidi, sono questioni politiche nelle quali la dimensione privata e quella pubblica sono indissolubilmente intrecciate l’una all’altra? E non è una questione politica il modo di condurre e organizzare le nostre vite quotidiane, il nostro abitare, il modo in cui mangiamo e beviamo e il modo in cui costruiamo le relazioni con l’altro? Un «altro» che non è più solo il femminile vs il maschile – il movimento Lgbt+ ha decostruito un certo identitarismo ereditato anche dai movimenti – ma è la forma di vita umana vs il vivente non umano, l’identità vs, appunto, il non identico. La questione «ambientale», l’infelicità, il consumo sempre crescente di psicofarmaci, la pornografia come unico modello educativo nella relazione tra i sessi, sono tutti temi che rimandano al senso della frase «incisa» nel led da Claire Fontaine.

E, tornando al progetto pensato per il Premio Casoli, è importante sottolineare come a precedere la realizzazione e l’installazione dell’opera, sia stato un workshop tenuto con le lavoratrici dell’azienda.

COLLETTI BIANCHI, piuttosto che colletti blu, a partire da una realtà nella quale è spesso il personale impiegato in funzioni amministrative, soprattutto se femminile, a trovarsi in condizioni di particolare pressione e auto-sfruttamento, per cui è fondamentale passare attraverso una forma contemporanea di «autocoscienza» che renda evidente la propria condizione. Una presa di coscienza che coincide con una forma di liberazione, come dicevamo anche prima, e che, in questo caso, dimostra il ruolo politico che può avere l’arte come attivatore di un processo collettivo di emancipazione.