Centoquarantré fotografi per illustrare il processo di civilizzazione del Ventunesimo secolo, scandito da otto parole chiave: alveare, soli, insieme, flusso, persuasione, controllo, rottura, fuga e prossimo. È questo, in sintesi, l’ambizioso progetto coordinato da William A. Ewing e Holly Roussell raccolto nel sontuoso volume Civilization (Einaudi, euro 75), scandito da 485 foto.
Entrambi i coordinatori sono consapevoli delle insidie che si celano dietro la cupa maestosità del termine civiltà. In primo luogo perché civiltà ha un significato generico. Indica uno stile condivi da una comunità umana, circoscritta e nel tempo e nello spazio, nonostante manifesti una vocazione conquistatrice, cioè quella di funzionare come fattore performativo per altre comunità umane e spazi geografici, da plasmarsi in base a criteri estetici, funzionali della «civiltà originaria». Allo stesso tempo, tuttavia, una civiltà non vuol solo plasmare il presente, ma definire quale debba essere il futuro, sia nello stile di vita che nell’estetica, nella «architettura cognitiva» e nei rapporti di potere che informano le relazioni sociali.
Di questa volontà di potenza, insita nel termine, ne è stato consapevole lo studioso americano Samuel P. Huntington che, nel famoso saggio sullo scontro di civiltà, punta l’indice contro la quinta colonna – i migranti, gli islamici, i latinos – dei nemici di quella occidentale destinata a un inarrestabile declino se l’Occidente non riscopre la sua vocazione civilizzatrice del pianeta.
Civiltà è, da sempre, un metatermine per indicare ciò che gli antropologi hanno qualificato come cultura di una forma specifica di società. Presentare un progetto sulle immagini del ventunesimo secolo, facendo leva sul concetto di civilizzazione vuol dire inoltrarsi su un terreno minato.

In primo luogo perché è implicito il fatto che nella dialettica tra omogenizzazione e differenziazione – da sempre centrale nel concetto di civiltà – la parte prevalente spetti all’omogenizzazione. Parlare di civiltà del ventunesimo secolo vuol dire che la comunità umana ha fatto suo un criterio di omogeneità nello stile di vite. Tesi ampiamente discutibile e che andrebbe articolata diversamente, introducendo, ad esempio, gli inoppugnabili fattori di meticciato che scandiscono gli stili di vita della contemporaneità.
Più che ipotizzare la presenza di una unitaria civiltà umana, sarebbe il caso di ritmare rigorosamente le forme di interdipendenze che scandiscono il vivere in società.
Come ignorare il «carattere civilizzatore» dell’islam o della Cina, dell’India, delle tante culture e modi di essere africani. Anche in questo caso però abbiamo le stesse attitudini conquistatrici immanenti al concetto di civiltà, compresa quella forma di stare insieme che si è soliti chiamare occidentale.

STILI DI VITA
In altri termini, la Civilization che emerge da queste foto e dagli scritti che le commentano ignora sia le interdipendenze e i processi di differenziazione (sociale, politica, economica) e ricomposizione che scandiscono questo inizio di millennio. Più che civiltà del ventunesimo secolo sarebbe semmai il caso di parlare del divenire di una grande trasformazione che mette, per il momento, tra parentesi le forzature performative inerenti la lettura antropologica del concetto stesso, preferendo i conflitti per l’egemonia di questo o quel modello di società che scandiscono le relazioni sociali in un denso, opaco e vischioso presente.
Nel fondamentale scritto di Fernand Braudel sulla civiltà del mediterraneo, lo storico francese evidenziava già per il sedicesimo secolo la tensione e le aporie presenti nel concetto di civiltà. Non è il caso che il suo contraltare fosse la feroce guerra tra alcuni paesi europei e l’islam politico e militare di quel periodo. E se gli stati europei vedevano nella religione cristiana la loro Weltanschauung, l’islam manifestava una omologa capacità performativa rispetto a società storicamente differenziate di quella rivendicata da Spagna, Portogallo, chiesa cattolica. Questo, tuttavia, scriveva Braudel, alimentava il concetto di civiltà, fondato oltre che su un riconoscibile stile di vita anche dalle armate e dagli eserciti eletti al ruolo di ambasciatori di quella medesima civiltà.

GUERRA FUORI SCENA
Nel volume Einaudi, la guerra è relegata ai margini perché considerata un residuo del passato. I novelli ambasciatori della civiltà del ventunesimo secolo sono i consumi, nonché l’estetica da alveare dell’abitare nelle metropoli contemporanee (splendida è la foto aerea di Mexico City di Pablo López Luz, dove la capitale messicana sembra appunto un alveare o un formicaio indistinto che cancella la presenza umana).
I vettori sono le tecnologie della comunicazione (le foto di Max Aguilera Hellweg sui cyborg, ma anche la rappresentazione iconografica del transumano, cioè dell’incrocio ormai inestricabile tra Rete e umani, tra robotica e materiale organico), nonché la produzione di senso che hanno nella musica, il cinema, la televisione, l’arte figurativa. Da questo punto di vista, il conflitto bellico può essere relegato ai margini.

ASTRAZIONI UMANE
Con una evidente rimozione del moltiplicarsi di conflitti militari locali viene assunta l’idea della scomparsa della guerra come strumento di relazione tra le società, tutt’ora attivato quando emerge una contestazione del potere costituito e della volontà di potenza di chi esprime una vocazione civilizzatrice verso popoli inferiori.
Così le foto sul modo di essere della forma città che emergono da queste immagine sono sempre espressione di una dimensione «maiuscola»: grandi aggregati urbani (la foto dedicate alle folle anonime di Parigi di Raimond Wouda, o gli scatti di Philippe Chancel sulla costruzione di mega torri nel deserto di Dubai, nonché gli aeroporti di Cassio Vasconcellos ridotti ad astrazioni geometriche di spazi altrimenti vuoti), gli immobili trasformati in alveari per folle comunque silenti e vogliose di aderire a identità collettive posticce e riconoscibili non per il colore della pelle o per le forme architettoniche, bensì per i loghi e le griffe che i singoli espongono nei palcoscenici metropolitani che attraversano. È questa omogeneità che legittima i coordinatori del progetto Civilization a scrivere, anche se in forma cauta, di civiltà.
Questo è evidente anche per la «sezione» dedicata ai conflitti sociali, di classe, di genere e di razza. Una sezione che lacera il velo dell’uniformità, anche se viene presentata come parantesi che si apre e si chiude quasi fosse una variazione meteorologica di un pianeta comunque unificato. In questa civiltà del ventunesimo secolo sono quasi assenti gli umani. Le ripetute serie di volti restituiscono una umanità aliena, appunto silente, fagocitata da processi di omogeneità o da un lavoro che colonizza la vita (la foto, bellissima, di Wang QuongSong). Quella che emerge è una civiltà con manie di grandezza e «totalitarie», ma comunque incapace di esprimere l’idea del buon vivere (occidentale, bianco, refrattario a qualsiasi processo di differenziazione negli stili di vita) con la quale ha legittimato la sua egemonia sul pianeta.