C’è un momento preciso in cui ho smesso di non leggere Pietro Citati. A destra e a manca, sopra e sotto, di lui quasi non si sentiva altro che parlar male. Ma poi, nel 1988, acquistai La fine del mondo antico di Santo Mazzarino, appena ristampato; il libro era preceduto da un ricordo dove a un certo punto si leggeva: «lavoravo per una casa editrice. Un vecchio professore mi annunciò la visita del più brillante storico di Roma antica. Non avevo mai sentito il suo nome. Di colpo vidi davanti a me un siciliano ancora giovane, piccolo, con i capelli neri, odoroso d’arancia». Che per parlare di Mazzarino si dicesse dell’odore lasciato da un’arancia forse appena sbucciata, era cosa singolare ma misteriosamente pertinente: apriva un mondo. Il ricordo portava la firma di Citati che, nato critico e diventato biografo, adesso tendeva a creare personaggi, anche attraverso le opere, secondo un percorso inventivo rispetto a vecchie scuole che dalla vita arrivavano all’opera o viceversa. Nella questione dei critici-scrittori, il caso era tale da indurre a parlare stavolta di un critico-narratore o critico-romanziere virante sempre, quando possibile – con i contemporanei –, verso la memorialistica. Lo si vede bene nel libro da Citati stesso allestito ma uscito postumo, La ragazza dagli occhi d’oro (Adelphi «Biblioteca», pp. 390, € 25,00), anche riepilogativo per l’arco spaziotemporale che va dai miti antichi, a Watteau e Mozart, a Fellini e ai poeti viventi.
Un percorso dal quale trarre qualche osservazione generale deve dunque partire dalla considerazione che per Citati sommamente contano la digressione e la memoria, anzi la digressione per la memoria. Prendiamo gli articoli su Flaiano e su Arbasino: il primo è un’infilzata di aneddoti sul fascismo, il secondo un’infilzata di ricordi degli anni gloriosi del Giorno quando i due, Citati e Arbasino, erano «giovani, frivoli e incompetenti». A chi appartengono quei ricordi? A Citati o a Flaiano o ad Arbasino? Il lettore non lo sa, né deve saperlo. Nel primo caso si presume a Flaiano, Citati era poco più che un ragazzino ai bei tempi: ecco che la digressione si fa memoria propria attraverso la memoria altrui; nel secondo caso si presume appartengano a Citati, che era coetaneo di Arbasino: ecco che la digressione si fa memoria altrui attraverso la memoria propria.
Forse a un certo punto Citati era annoiato dalla letteratura: tutto il meglio lo aveva già letto; anche per questo negli articoli tardi si fa sempre più evidente un interesse per le biografie, che è un interesse verso quanto rimane della vita: così, tanti articoli sono una messa in evidenza, dentro le biografie, di quanto può essere significativo al di là dell’individuo, fino a un punto quasi simbolico, ma senza mai quell’individuo dimenticare (lo si vede in maniera esemplare nelle brevi pagine dedicate a Gustaw Herling). Forse anche per il suo modo di estrarre aneddoti risonanti dalle biografie, alle generazioni successive Citati sembrava un critico (ma è la parola? O non sarebbe meglio un’altra? Quale?) di quelli che hanno contezza della loro breve durata ma tengono segreta e accesa la speranza che quella durata non sia troppo breve, e così inventano personaggi, li tirano fuori dal passato, sono un po’ romanzieri.
Oppure Citati mostra il magistero che si può avere nell’arte del riassunto o della parafrasi. Il giudizio può rimanere implicito (o reso esplicito dal solo fatto di occuparsi di quel libro o autore) o essere espresso da qualche generico aggettivo: piacevole, incantevole, delizioso. Succede in un articolo su Sebald (dal quale è tratta la terna di aggettivi) che poi è quasi tutto dedicato a Robert Walser, ai momenti esemplari della sua vita, che è anche un modo, per Citati, in questa critica al quadrato, di riportare costantemente il discorso su ciò che sa e che ama: e il suo scopo sta nel trasmettere un invito a leggere per appropriarsi di quel piacere, di quell’incanto, di quella delizia.
Con la scrittura si creano a volte tra pagine indipendenti l’una dall’altra contatti che discendono dal modo di guardare e di sentire di chi scrive. In due articoli datati a distanza, fanno coppia Manganelli e Arbasino. Di Manganelli: «Come me, tra gli scrittori italiani, adorava Carlo Emilio Gadda: Il pasticciaccio era, per lui, un libro inattingibile, che non poteva raggiungere o corteggiare nemmeno in sogno»; di Arbasino: «Fu l’unico, credo, a creare uno strano movimento: i Nipotini dell’Ingegnere; l’Ingegnere era, naturalmente, Carlo Emilio Gadda, l’autore di tutti i capolavori in prosa della letteratura italiana moderna. Arbasino aveva un culto per L’Adalgisa, La cognizione del dolore e il Pasticciaccio; e ne parlava con rara precisione». Saranno cose note, ma in Citati sono di prima mano e le loro conseguenze troppo note non sono. Nell’articolo su Arbasino la frase che segue, un po’ a sorpresa, è: «Nel più sottile senso della parola, era un uomo naturalmente buono» (e quest’uomo fece per Citati un solo errore: «architettare un libro come i Fratelli d’Italia»). Il ritratto (involontariamente?) parallelo ha anche un altro punto di contatto: «Manganelli abitava nei luoghi più strani e rari: che nessuno, o quasi nessuno, frequentava. Era sempre altrove: perché pensava che tutto, tutto – ogni centro – dipendesse dall’altrove. Per questo tradusse stupendamente tutto Poe, il quale abitava in tutti i luoghi impossibili, quelli che nessuno osava frequentare»: che non è un’indicazione letterale e biografica, ma letteraria e metaforica. Anche Arbasino «era sempre altrove. Se non era a Voghera, era a Milano: se non era a Milano, passeggiava velocemente, con un passo che non si arrestava mai, per le strade di Roma: se non era a Roma, era a Londra, o a Pietroburgo, o a Pechino, o a Buenos Aires o al Polo Nord; soltanto Giorgio Manganelli era veloce come lui». Alla fine il parallelismo viene fuori: anche stavolta, nonostante la precisione, l’elencazione topografica è divertita e inventiva: dunque metaforica.
La verità è che questo parallelismo serve a Citati per sbilanciarsi, per essere sghembo (come «le cose che si muovono contemporaneamente in più direzioni»). Io, dice Citati, ero un recensore, Manganelli era un genio, che detestava la «similvita» riguardante la persona e l’opera di Pasolini, quasi tutta mediocre o pessima (l’assenza di virgolette induce a credere che Citati si appropri del giudizio); con epilogo più avanti: «Tutti, tutti, tutti i libri verisimili sono bruttissimi, come quelli di Alberto Moravia, i cui libri erano i “sogni ingegnosamente malati di un uomo sano”» (qui la formula è tale che dal virgolettato Citati non può esimersi, pur – si sospetta – appropriandosene). Manganelli va verso Le mille e una notte: pur aderendo a questo sentire, Citati lascia intendere che similvita e verisimile nulla hanno a che fare con il grande realismo, sia esso magari visionario e terribile come quello del romanzo di Balzac al quale il libro presente ruba il titolo, La ragazza dagli occhi d’oro. Però, in questa visione delle cose, troviamo un’osservazione da riferire a Citati stesso: «non sappiamo mai quello che Balzac pensava: sappiamo soltanto quello che il suo libro pensava» attraverso tutte le bocche dei personaggi (un idiota, un assassino, un’oca mondana), e poi attraverso lo sguardo del più grande dei critici, Baudelaire (dove convivono cultura, ispirazione, prodigiosa intelligenza analogica, sottigliezza, immensa profondità, sovrana attenzione). «Balzac si sente obbligato a trascrivere il minimo oggetto. Non è felice se non ha descritto tutte le condizioni e le situazioni sociali, se non ha rappresentato gli alberghi di Parigi, i nomi dei sarti, le vecchie e nuove tipografie, il codice commerciale, le cambiali, i brevetti». Qui il realismo diventa visionarietà, per il disperato tentativo di abbracciare ogni cosa, e di ogni cosa riferire; e da qui nasce, con movimento sghembo, ciò che chiamiamo modernità: «Da Tolstoj a Kafka il romanzo moderno, che ama l’omissione, non è che una cosciente, grandiosa ribellione contro Balzac». Si tratta di un diagramma che spiega quei grandi e, in scala, i geni o i talenti che si è avuto in sorte di conoscere o di frequentare (i ricordi su un terzo amico stanno nascosti dentro le pagine dedicate a Giuseppe Conte. Nessuno lo dimenticherà il giovane «Calvino, che attraversava Torino, anche nei quartieri più nobili, vestito come un marinaio cubano, coi sandali e un abito strapazzatissimo»).